Evasioni, racconto di Silvia Roncucci

Evasioni di Silvia Roncucci
«Osserva le compagne, si sente sollevata che Sandra sia tornata: meglio che tutto resti com’è, i cambiamenti sono quasi sempre in peggio.»

Debora torna a controllare l’ora. «Eppure lo sa che devo uscire alle due stecchite» dice rivolta a Esther.
«Non ha mai fatto tardi» risponde lei inarcando la schiena. Scende con le mani verso il basso, si tocca le punte dei piedi e risale distendendo la spina dorsale, lentissima, vertebra dopo vertebra.
«Vedrete che spunta a minuti» osserva Lucia, poi beve un sorso d’acqua. Alla sua età bisogna idratarsi di continuo, lo dicono anche al telegiornale, e oggi il sole di giugno batte sui vetri della palestra arroventandola. Lucia guarda fuori: un uomo con un cane al guinzaglio passando osserva lei e le altre. Per un attimo ha l’impressione di essere uno di quegli animali che tengono in vetrina, esposti a sguardi curiosi, e ha l’istinto di coprirsi.

Debora alza gli occhi verso il grande orologio sulla parete d’ingresso che segna le una e quindici e impreca.
«Ora vado a lamentarmi… e che cazzo, poi alle due e cinque secondi cominciano a telefonarmi» borbotta, tirando giù con forza la maglietta che fatica a coprirle la pancia generosa, e fa per dirigersi verso la segreteria quando si sentono dei passi svelti fuori dalla porta.
«Eccola, vedi che avevo ragione? Certo che tu proprio la pazienza…» dice Lucia. Un guizzo di soddisfazione le illumina il viso.
Un ragazzo entra nella sala a testa bassa, scusandosi per il ritardo. Porta i capelli chiusi in un codino morbido, una canottiera gli fascia i muscoli, in fondo ai pantaloni che gli vanno un po’ larghi s’intravedono i piedi scalzi.
«Mi dispiace» ripete con un sorriso imbarazzato. Ha gli incisivi distanti, gli occhi appena segnati da ombre delicate. «Sandra non si sente bene. Iniziamo subito il riscaldamento».

Alcune cominciano a parlottare. Mentre lui si muove tra di loro correggendo i gesti sbagliati, si sentono delle risatine adolescenziali.
«Alla miseria, che muscoli!» fa Debora, voltandosi verso Esther.
«Parla piano… ora non ti lamenti, eh?»
«Direi proprio di no!» e subito dopo richiama l’attenzione del ragazzo. Gli chiede se fa bene un movimento, lo prega di guardare se la sua coscia è abbastanza in tensione. Lui arrossisce lievemente e appena può si dirige verso un’altra signora. Esther fa un segno di assenso a Debora e insieme continuano a ridacchiare.

Quando il ragazzo si mette di spalle e chiede alle donne di imitare le sue posizioni, in un silenzio teso qualcuna non riesce a contenere una grossa risata: è Debora.
«Si vede che ‘sto ragazzetto gli esercizi per i glutei li sa fare!» dice.
Anche Esther scoppia a ridere. «Potrebbe essere mio figlio» fa.
«Tuo figlio, hai detto bene, o uno dei tuoi studenti. Nel mio caso… quanto avrà? Massimo dieci, quindici anni meno di me?».
«Vergognatevi» le rimprovera Lucia, cercando di parlare piano. «È un ragazzo. Siete peggio degli uomini!»
«Che male c’è a guardare delle belle creature e fare due battute… i maschi lo fanno sempre. Una volta tanto ci divertiamo noi» replica Debora, mentre lei e Esther continuano a scoccare occhiate eloquenti al fondoschiena dell’istruttore. Che subito dopo si avvicina a Lucia, le chiede se può prendere le sue braccia — magre, punteggiate di macchie scure — e corregge una posizione sbagliata, mentre le guance della donna si tingono di un rosa tenue.

Poco dopo la lezione finisce, il ragazzo unisce i palmi e fa un inchino per salutare le signore, e quando dice che può darsi si rivedano presto, in tante rispondono che se lo augurano.
«Non ho mai goduto così tanto a pilates!» osserva Debora.
«Lo vedo, ti ha tolto anche di mente che farai tardi al lavoro…» dice Esther. «Porca miseria. Mi hanno chiamato dall’ospedale» fa poi guardando il cellulare. Si gratta la nuca, la fronte abbuiata.
«Hai il numero dell’ospedale memorizzato?», chiede Debora.
«Sì. Per mia madre… non c’è mai da stare tranquilli. Vado, alla prossima.» Esther saluta ed esce dallo spogliatoio senza neanche guardare le altre.
«Ciao» risponde Debora mentre tira fuori dalla borsa il cellulare. Le hanno telefonato tre volte dal lavoro, e non sono neanche le due e un quarto. Le ultime dieci chiamate sono tutte di colleghi, clienti, consulenti dell’assicurazione in cui lavora.

Anche Lucia esce dalla palestra. Si mette una mano sulla guancia, si vergogna un po’ di ritrovarsi a pensare che il giovane istruttore è proprio carino. Di solito degli uomini così non si fida, anzi, non si fida degli uomini in generale, ci parla il meno possibile e non riesce a svagarsi per cose come queste: guardare maschi gradevoli. Forse perché anche quello che ha incontrato quando aveva la stessa età del giovane istruttore era bello da vedere. Forse proprio per questo: perché lui era bello. Ma quel che le ha fatto non lo è stato per niente. Avrebbe voglia di lamentarsi con la segretaria della palestra, dire che non si può spezzare la routine di un gruppo di corsiste rodato ma sa che di insegnanti ne hanno cambiati parecchi nel corso degli anni, che non è da lei protestare, che il punto non è questo.

La settimana dopo Sandra è tornata. Chiede come è andata con Michele, così si chiama l’istruttore, che è anche il fidanzato di sua figlia. Debora è l’unica a saperlo: negli ultimi giorni ha scorso tutte le sue foto nei social, ha messo un paio di like, è saltata distrattamente a un altro profilo, un altro ancora. Si è pure toccata, non ricorda se per lui o qualcun altro, ma questo non lo direbbe alle compagne di corso, non le farebbe ridere.

«Pensano al matrimonio?» chiede a Sandra, piegando la bocca in un broncio.
«Ancora è presto. Sono giovani» risponde lei ridendo.
«Allora c’è speranza!» dice Debora guardando Esther. Lei scuote la testa. A Debora muore un sorriso in bocca: forse Esther oggi non è in vena, forse sua madre non sta ancora bene, magari ha ragione Lucia, alla sua età battute del genere non le si addicono più. Torna a guardarla per cercare la sua approvazione, ma Esther esegue gli esercizi con movimenti automatici e sembra non volersi distrarre. Oggi, lasciare il cellulare negli spogliatoi, staccare dal mondo, è ancora più importante del solito per lei. Tornata a casa dovrà prendere una decisione per sua madre: scegliere se prolungare la sua vita dolorosa o accettare che si spenga presto da sola. E suo marito le dirà che può anche darle un consiglio, ma la decisione finale spetta a lei.

Lucia appoggia la borraccia per terra e guarda fuori, ma non c’è nessuno. Osserva le compagne, si sente sollevata che Sandra sia tornata: meglio che tutto resti com’è, i cambiamenti sono quasi sempre in peggio.
«Forza col riscaldamento, donne!» fa Sandra battendo le mani. Piega la schiena in avanti, si tocca le punte dei piedi con le dita, snocciola le vertebre. Le altre si lasciano dirigere senza perdere tempo, ogni tanto scambiano due parole, a volte si lamentano, si beccano un rimprovero, fanno qualche risata. Per un’ora intera, come sempre.

Silvia Roncucci (Siena, 1979) si divide tra il lavoro di insegnante e quello di guida turistica. Ha frequentato corsi di scrittura con Giulio Mozzi, Rossana Campo e Marco Rossari. Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati su Offline, Malgrado le mosche, Il foglio letterario, Lorem Ipsum, Belleville news, Pastrengo, Neutopia e Rivista Blam. Combatte quotidianamente con la dipendenza dalla crema di pistacchio, una figlia testarda, un marito polistrumentista e un gatto che adora saltare sulla tastiera del computer mentre scrive.

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