Lucy Salani, la donna transgender più anziana d’Italia, l’unica transessuale sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti. Dal terzo numero della nostra rivista.
«Il mio nome è Salani Luciano, originale, però nella vita ho preso parecchi nomi, ma io mi chiamo Luciano. Quante volte me l’han chiesto di cambiare nome, ho detto “no, me l’hanno dato i miei genitori, è sacro” perché ci hanno fatto un buco? Perché ci hanno tolto quello che avevi e ci hanno fatto un buco? No… Perché, una donna non si può chiamare Luciano? Perché no? Perché no?» chiede Lucy Salani nel bel documentario a lei dedicato, C’è un soffio di vita soltanto (per la regia di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini), quando le chiedono come mai non abbia voluto cambiare il nome nei documenti dopo l’intervento di adeguamento di genere. Ma lei, con la determinazione e la lucidità che la contraddistinguono da sempre, decide che la vita deve girare a modo suo. Oppure non girare affatto.
La storia di Lucy Salani è una storia fatta di tante apparenti contraddizioni, che valgono però solo per chi abbia bisogno di etichettare tutto e catalogare, identificare, chiarire. Ma lei le idee le ha sempre avute molto chiare anche se ha passato la vita a sconvolgere quelle degli altri.
Rimettere insieme i pezzi della sua lunga storia (Lucy Salani è classe 1924 e oggi, nel 2022, è ancora in salute) non è semplice perché a volte i ricordi si fanno confusi e sovrapposti, ma possiamo dire che fin da piccola è nata diversa o, come direbbe lei, “nato diverso”. Gabriella Romano, nel bel romanzo Il mio nome è Lucy, ci spiega come sia Lucy stessa a cambiare pronome a seconda dei momenti quando parla della propria vita. E per quanto mi riguarda, dopo aver visionato interviste e documentari, azzardo l’ipotesi che lei si riferisca a sé con il maschile fino al momento dell’intervento, poi al femminile per narrare i fatti successivi all’intervento di transizione. Ma è, appunto, un’ipotesi azzardata, perché qualche volta, forse anche a causa dell’età, lei stessa entra in confusione e parla di sé al maschile, nonostante sia la prima a dire: «Mi sono sempre sentita donna e femmina.»
Ma di chi stiamo parlando? Stiamo parlando dell’unica transessuale sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti. Ci sono Movimenti e Associazioni pronti a raccontare la sua storia per usarla anche un po’ come bandiera. Wikipedia ce la presenta come attivista, ma «Lucy non è mai stata un’attivista, anzi, ha sempre mostrato un certo scetticismo rispetto alla rivendicazione dei diritti delle persone lgbtq+ portata avanti da gruppi e associazioni, perché ha sempre pensato che questo tipo di lotta spetti al singolo individuo […] Come molte persone della sua età, ha sempre voluto tenersi a distanza dai gruppi gay o transessuali, anzi, ha sempre nutrito una certa diffidenza per gli ambienti unicamente gay. Sottintesa c’è una forte volontà di uscire dal ghetto. Un’esigenza di integrazione a tutti i costi che la generazione di omosessuali e transessuali coetanei a Lucy spesso sente come imperativa» ci ricorda Romano nel suo libro. Lucy Salani è sempre e solo stata una persona che aveva delle idee politiche e religiose precise e che non ha mai accettato compromessi.
Da dove viene Lucy? Lucy nasce in Piemonte, a Fossano, in provincia di Cuneo, da genitori emiliani. Il padre, di Mirandola (provincia di Modena) era a Fossano per lavoro e lì nacque Luciano. Fin da piccino preferiva la compagnia delle bambine a quella dei bambini che trovava noiosi. Luciano che, evidentemente diverso fin da subito, venne adescato dal parroco pedofilo e abusato. Non fu creduto dai suoi familiari che già lo avevano riconosciuto come diverso e che presero le sue parole come una scusa per non andare al catechismo. Persino un pittore, vicino di casa, col pretesto di dipingere un putto, chiese ai genitori il permesso di portarsi il figlioletto a casa, dove avanzò richieste sessuali nei confronti del bambino.
Lucy dice: «Io non sapevo nulla di come funzionassero queste cose, rimasi sotto shock, sono cose che ti segnano dentro» ma poi da lì, fin da piccolino, capendo presto cosa sono i soldi e sapendo che a casa mancavano, imparò l’arte del trarre a proprio vantaggio le situazioni e cominciò a farsi pagare. Sì, perché Lucy, tra le altre tante cose, ha fatto anche la “vita”, con gli amici che condividevano con lei questa diversità.
La gioventù la trascorse a Bologna, dove la famiglia si trasferì in seguito a una disavventura lavorativa del padre. Ed è lì, tra la Montagnola e altri luoghi deputati agli incontri clandestini, che Lucy Salani la sera rimpinguava lo stipendio da cameriere che prendeva di giorno. Con mille precauzioni, perché al tempo c’era ancora l’arresto per il reato di travestitismo, non solo, c’erano i fascisti e i nazisti che facevano scherzi pesanti alle persone come Lucy. Un loro compagno, un po’ meno avveduto degli altri, seguì uno che poi si rivelò fascista e che gli tese un agguato. Il malcapitato tornò completamente spalmato di catrame, cosa che lo rovinò per sempre. Si doveva stare molto attenti, ma Lucy dice che ha sempre avuto fiuto per le situazioni pericolose e se l’è sempre svignata in tempo. E le è anche quasi sempre andata bene. Quando Luciano fu chiamato per la leva e quindi per la guerra, non ebbe paura di ammettere di essere invertito, come si diceva allora, ma non lo presero sul serio: «Adesso che c’è la guerra sono tutti pederasti per evitare di combattere» si sentì rispondere, e fu arruolato. Ma lui, come tutta la sua famiglia, era sempre stato antifascista quindi scappò, finché fu riacciuffato e gli imposero di scegliere tra fascisti e nazisti. I fascisti li conosceva e voleva evitarli, quindi scelse l’esercito tedesco. Ancora una volta si diede alla fuga non appena ne ebbe l’occasione, ma fu di nuovo catturato e deportato a Dachau, non come omosessuale, per sua fortuna, ma come disertore. Non aveva la stella rosa attaccata alla divisa, ma quella rossa con IT scritto al centro, per indicare la nazionalità.
Come si fa a parlare di una storia come quella di Lucy che, proveniente da una famiglia molto povera, passa dall’esperienza della pedofilia prima, alla prostituzione poi, al campo di concentramento e per altre mille avventure senza scriverne un libro o farne un documentario? Quello su cui bisogna stare molto attenti, però, sono le sottigliezze delle posizioni di Lucy. Posizioni che a un occhio poco attento possono sfuggire. Per esempio, dopo essere stata una delle prime donne italiane a fare una transizione completa (compatibilmente ai livelli della chirurgia di allora), Lucy continua a ripetere, nel libro di Romano e in alcune interviste, che vuole essere seppellita con abiti maschili: «Lo devo a mia madre che maschio mi ha fatto e come tale voglio tornare da lei.» Per lo stesso motivo non ha voluto cambiare i nomi sui documenti: «Questo è il nome che hanno scelto per me i miei genitori ed è sacro, cosa c’è di male?»
Però in C’è un soffio di vita soltanto la vediamo prendersi cura della propria pelle e dei capelli come solo una donna sa fare. Si spalma la crema per il viso, si spazzola, si mette la lacca per tenere la piega. Lucy è a tutti gli effetti una donna. Anche se denuncia il fatto che la terapia ormonale le ha cambiato un po’ il carattere, facendola diventare meno attiva e più riflessiva e anche un po’ più ansiosa. Lucy ha avuto anche una figlia, seppur adottiva, morta precocemente peraltro. Una ragazzina di Torino rimasta orfana presto che Lucy ebbe modo di vedere crescere fin da piccina e a cui fu accanto nel momento della perdita dei genitori, nel matrimonio (poi fallito) e durante la nascita del figlioletto. «Sono diventata mamma e nonna quasi contemporaneamente.» Ha avuto una famiglia anche Lucy, a modo suo. Compleanni e Natali passati insieme. Fu la ragazzina a dire: «Sei tu la mia mamma» e Lucy non se lo fece ripetere: «Va bene, facciamo così, sarò io la tua mamma.»
Nonostante l’importanza drammatica che i sei mesi a Dachau ebbero per lei, per troppe altre persone e per la storia del pianeta in generale, non mi ci voglio soffermare se non per dire che inizialmente per Romano fu difficile farla parlare di quell’esperienza. Per molto tempo nel mondo non si parlò dei campi di concentramento nazisti perché chi parlava veniva tacciato di falsificare i ricordi per esagerare. Lucy fu una di queste e cominciò anche lei a starsene zitta. Quando Romano riuscì a fare riemergere un piccolo episodio di quei sei mesi, Lucy, a distanza di più di sessanta anni, scoppiò a piangere e Gabriella Romano decise di affrontare la cosa con calma, lasciandole gli spazi adatti per far uscire i ricordi spontaneamente.
Lucy di vita ne ha vista e vissuta e chi scrive tenderebbe a rispettare la sua neutralità. Lei stessa dice: «Io sono un miscuglio» a volte, mentre altre volte ammette apertamente di essere sempre stata femmina e donna. Io la lascerei stare, la lascerei in pace con le sue decisioni contraddittorie (per chi? Per noi forse), la lascerei in pace con i suoi ricordi dolorosi e con le sue prese di posizione. Lucy ripete spesso: «Dio non esiste, se esistesse un Dio non avrebbe permesso quello che è stato nei campi di concentramento, Dio siamo noi, siamo noi che decidiamo cosa fare delle nostre esistenze.» E ancora: «L’unico modo per continuare a vivere è guardare avanti, sempre avanti.»
Forse davvero l’unico modo di sopravvivere a un destino così nefasto per lei deve essere stato quello di continuare a guardare avanti senza perdere tempo a piangersi addosso.
Adesso Lucy, dopo aver vissuto lungamente a Torino e aver viaggiato per amore di alcuni uomini e della scoperta e del viaggio in sé, vive a Bologna, tornata per assistere la madre anziana e lì rimasta, dove un nutrito numero di persone la coccola e ha cura di lei. Quest’anno Lucy compie 98 anni. Intervistarla è un’impresa impossibile, già il lavoro di ricostruzione di Gabriella Romano era stato difficile nel 2008 per via della memoria della nostra protagonista.
C’è un soffio di vita soltanto è un documentario più emotivo che narrativo, ma molto profondo e poetico che rende giustizia a questa figura così complessa e vissuta. Su YouTube si trova anche un’intervista di qualche anno fa, quando era un po’ meno anziana e ancora in grado di interagire con un pubblico. La consiglio vivamente, perché la si può vedere narrare di sé a modo suo, con la propria percezione del sé e con i suoi ricordi più lucidi e le sue forti convinzioni.
Laura Massera
Foto in alto: Lucy Salani
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