La pillola di oggi è il racconto di Serena Pisaneschi Aveva ragione John Lennon. Il valore del tempo è dato dal modo in cui lo viviamo.
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AVEVA RAGIONE JOHN LENNON di Serena Pisaneschi
Tempo fisico e tempo emotivo non vanno mai a braccetto. Le lancette scorrono diventando prima giorni sul calendario, poi rughe sul volto, e alla fine ti lasciano a chiederti quando è successo tutto e dov’eri tu nel frattempo.
Alessia se lo chiedeva spesso dove fosse stata lungo lo scivolare di quegli anni incompleti. Se si guardava indietro vedeva i passi lenti – a volte strascicati – di una vita ordinaria essere scappati via. Ieri era diventato oggi tanto in fretta da non rendersene conto, per poi trovarsi al suo cospetto sperduta come John Travolta nel meme nato da Pulp Fiction. I capelli erano diventati bianchi, gli occhiali progressivi, i dolori più persistenti, alcune cene difficili da digerire, così come alcune persone. Ma con l’età era arrivata anche una certa, preziosa saggezza nello scegliere sia pasti che compagnie.
«Ma’, che si mangia per cena?» Yuri arrivò in cucina ciondolando, con l’aria indolente di chi è affaticato dall’adolescenza.
«Stasera esperimento: crêpes di farina di ceci.»
Yuri guardò sua madre dall’alto del suo metro e ottanta, un intenso secondo dopo fece spallucce, scostò una sedia dal tavolo e si sedette incollando gli occhi allo schermo del telefono.
Alessia si mise a rimestare con una frusta acqua, farina e sale. Girava con energia mentre spiava suo figlio. Capelli rasati a V sulla nuca e scompigliati sulla fronte, in un taglio alla moda. Poco sotto due occhi color acquamarina, il suo stesso naso delicato, una peluria biondastra sul labbro superiore, la bocca che sembrava disegnata da un preraffaellita. Meno di un anno fa era un bambino e ora bum! Esploso in una promessa di giovane uomo.
«Mamma, ti faccio un indovinello.»
«Vai» gli disse Alessia, incorporando l’olio e stupendosi ancora, dopo mesi, della voce che si era fatta baritonale.
«Se siamo in una gara, io sono secondo e tu mi superi, come diventi?»
Alessia ci pensò su e poi rispose: «Seconda.»
«Brava, mamma» approvò Yuri con numerosi assensi del capo. «Verrebbe da dire primo, ma invece è secondo.»
«La domanda inganna, ma io sono più furba» disse Alessia, alzando le sopracciglia.
«Seee, seee, era facile» la canzonò Yuri, andando a buttarsi sul divano; un piede sul pouf e le dita svelte sulla tastiera qwerty del touch screen.
Quando era diventato così grande? Così distante? Così sé? Si dice che i bambini comincino a pensarsi come individui indipendenti dalla madre dopo i due anni di età. Lì inizia la costruzione dell’io, un mattoncino Lego dopo l’altro a edificare una persona tutta nuova. Ma l’infanzia regala ancora attaccamento, simbiosi, confidenze, tenerezze. Ore passate a inventarsi giochi divertenti ma costruttivi, piccole immense condivisioni. Poi piano piano inizia lo scollamento. Tra lei e Yuri resistevano alcuni fili di mastice ma si stavano allungando così tanto che prima o poi avrebbero ceduto. Ed era giusto così, Alessia lo sapeva. Avrebbe sempre avuto addosso l’impronta di Yuri e Yuri avrebbe sempre avuto un posto dove ricollocarsi, al bisogno. Ma nella lentezza di quel distacco il tempo era passato troppo veloce.
Accendendo il fornello Alessia si chiese se avesse fatto un buon lavoro. Non ci si pensa mai durante il cammino, poi però succede che si arriva a un punto in cui non si può più tornare indietro e ci si domanda se la strada l’abbiamo percorsa nel modo giusto. Avrò fatto tutto bene? Gli avrò insegnato valori e principi solidi? Così si interrogava Alessia, roteando la padella per far scivolare l’impasto.
Ma fu l’ultima domanda a gettarla nel panico: farò ancora in tempo? Tutti quegli anni passati a crescere un figlio più concentrata sugli aspetti pratici, doveri e regole da impartire, ma era stata abbastanza brava dal lato umano? Aveva colto i suoi bisogni emotivi? Mentre staccava i bordi con una spatola fece una veloce analisi e concluse che sì, le sembrava di aver fatto un buon lavoro. Certo, sicuramente fallace in più di un punto, ma il dialogo era stato costruito e mantenuto sempre aperto. Voltando la crêpe in un gesto veloce si ripromise di fare ancora più attenzione, ché da quel punto in avanti la strada cominciava ad arrampicarsi su pendii impervi.
L’orizzonte del proprio sé invece Alessia lo vedeva pianeggiante, più fluido che spigoloso. La consapevolezza del tempo scappato via le aveva fatto capire che l’unico modo per vivere appieno quello che le rimaneva era radicarsi nel presente. Godersi l’adesso senza timori, senza aspettative, a partire delle piccole cose. Era già a metà del suo secondo tempo e non aveva la minima intenzione di perdersi altri frammenti. L’unico modo per farlo era restare esattamente dove si trovava in quel momento. Preparare le crêpes, ascoltare i suoni della vita tecnologica di suo figlio, seguire con scarsa attenzione il medical drama alla tv.
Era tutta questione di esercizio, allenarsi ogni giorno a quella quiete d’animo che, piano piano, sarebbe diventata spontanea. Non era mai stata una sua attitudine, la calma. Passato e soprattutto futuro avevano sempre manipolato un’emotività prudente ma intensa. Poi però aveva capito che ieri non esisteva più e domani non esiste ancora, quindi il tempo, tutto sommato, era soltanto una convenzione scandita dal susseguirsi di giorno e notte. Il presente era l’unica vera unità del tempo, ma anche quello, frazionato in attimi, se ne volava via veloce. Una manciata di minuti e avrebbe smesso di cucinare, poi di cenare con Yuri, poi lui si sarebbe rintanato in camera sua. Non c’era permanenza, non c’era fissità. Solo istanti di presente che era necessario degnare della massima attenzione perché lasciassero traccia del loro passaggio.
John Lennon una volta cantò: «La vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altri progetti». Alessia aveva sempre sorriso ricordando quella frase, ma negli ultimi mesi ne aveva compreso il vero significato. Assorta in quel «fare altri progetti» si era persa gran parte della sua vita. E che cos’era la vita se non un susseguirsi di momenti fuggevoli? Adesso che aveva cognizione del tesoro che poteva regalare lo scorrere del tempo era suo intento viverlo il più possibile.
«Amore, è pronto» chiamò.
«Eccomi» Yuri la raggiunse. «Ma che ci mangiamo insieme?»
«Affettati, verdure, formaggi…»
«Tipo piadina?»
«Esatto.»
Si scambiarono le farciture, chiusero e addentarono.
«Mmh, buona» si sorprese Yuri, con la bocca piena. «Sa di cecina.»
«Grazie, Capitan Ovvio, sono gli stessi ingredienti.»
«Gne gne» finì lui, in una smorfia.
E mentre erano lì seduti, a condividere una cena tutta nuova per entrambi, Alessia catturò il momento e lo fece suo. Con la coda dell’occhio spiò suo figlio gustarsi la crêpe e si rammaricò ancora di quanti ieri non aveva avuto la lungimiranza di fermare. Ma scacciò via quell’inopportuna malinconia concentrandosi solo sul presente. Guardandolo, le tornarono alla mente ancora i versi di John Lennon. Li lasciò liberi di risuonarle dentro.
Magnifico ragazzo
Veleggiando lontano sull’oceano
Non resisto all’attesa
Di vederti cresciuto
Ma so che entrambi dovremo aver pazienza
Che la strada da percorrere è lunga
Un duro solco da arare
Sì molta strada da fare
Ma nel frattempo
Prima di attraversare la strada
Afferra la mia mano
La vita è ciò che ti accade
Mentre sei impegnato a fare altri progetti
Serena Pisaneschi
Foto in alto: Elaborazione grafica di Erna Corsi
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