Donnaridens: Marchesa Colombi e l’ironia di un matrimonio senza scampo

Un matrimonio in provincia
Insolito e modernissimo romanzo ottocentesco che, abbandonato ogni romanticismo, si rivela di un realismo divertente e spiazzante.

Chi non adora spulciare i mercatini dell’usato e lasciarsi conquistare dal richiamo irresistibile di una copertina, un titolo, un nome che sia una garanzia? Anche a me capita spesso di imbattermi in testi di case editrici che mi attraggono in maniera prepotente. Ne cito una, sapendo di non fare torto a nessuno visto che non esiste più: si tratta della Barbès di Firenze (la cui redazione, a onor del vero, è emigrata parzialmente in Clichy) che pubblicava, tra gli altri, classici dalle copertine vivaci, spesse e rugose, tanto che per me la palpazione prolungata era un rituale obbligatorio che spesso sfociava in un acquisto altrettanto obbligato.

Forse è anche per questo che non ho esitato ad afferrare la copia di Un matrimonio in provincia che faceva capolino da una bancarella. Quando poi ho letto nell’introduzione che era stato definito da Natalia Ginzburg «buffo, divertente e strano» ho sentito crescere la curiosità verso questo testo, scritto da un’autrice allora a me ignota, Marchesa Colombi, e uscito per la prima volta nel 1885.

Il romanzo narra la storia di Denza e Titina, due sorelle del novarese orfane di madre che conducono un’esistenza fatta di giorni tutti uguali in una casa modesta, con un padre notaio amante del movimento fisico per sé e per tutta la famiglia, figlie femmine comprese (un po’ meno di quello mentale, soprattutto per le figlie femmine), una matrigna che pensa solo a risparmiare per assicurare un futuro agiato al suo erede maschio e una zia zitellona che trascorre la maggior parte del tempo nascosta dietro un paravento in cucina. Quello della “zitellona”, termine usato spesso dall’autrice (anche nel suo manuale di buone maniere, La gente per bene, testo di grande successo all’epoca) è fin da subito presentato come un destino da evitare a ogni costo: la massima sventura, il peggiore dei flagelli.

Un matrimonio in provinciaMarchesa Colombi fa raccontare a Denza gli avvenimenti con un linguaggio diretto e colorito, schietto e popolare. Le vicende delle ragazze e della ricerca di un uomo che le sposi, delle fantasie di Denza in contrasto con la concretezza di Titina, dell’incontro-scontro con le sfarfallanti cugine che vanno in collegio e fanno vita mondana (forse non molto più ricche, ma dotate di maggiore cultura e conoscenza del mondo) sono narrate con picchi di brusca ironia. Con una frase, caustica e diretta, Colombi ritaglia un mondo attorno alle figure e dipinge le situazioni sociali del tempo: «La figlia di un farmacista […] aveva aspettato il figlio di un notaio per tredici anni, poi l’aveva sposato. È vero che era morta di una malattia di nervi, dopo poco più di un anno di matrimonio; ma questo a me non poteva accadere» dice Denza. «Prima di rinunciare [a lui], io mi sarei rassegnata a fare vita comune col padre, colla madre di lui, con tutta la parentela paterna e materna, ascendente e collaterale, fino ai cugini più remoti» dichiara riferendosi al suo innamorato.

Marchesa Colombi è lo pseudonimo dietro il quale si cela Maria Antonietta Torriani, scrittrice, giornalista, intellettuale, femminista, sposata (poi separata) con Eugenio Torelli Viollier, fondatore e primo direttore del Corriere della sera. I testi della Torriani sono la dimostrazione che l’ironia femminile è sempre esistita in letteratura, non solo nel mondo anglosassone, dove un’autrice come Jane Austen è ritenuta pari se non superiore ai coevi autori uomini, ma anche nell’Italia di oltre un secolo fa. Alcuni racconti della raccolta Serate d’inverno, ad esempio, e persino passi del manuale di galateo, mostrano guizzi brillanti, sarcastici, spesso tesi a illustrare le dinamiche familiari e il ruolo della donna nella società dell’epoca, nel rapporto con i familiari dall’età infantile alla vedovanza: «Oh! chi mi rende l’eroica poesia del rogo, e le vedove entusiaste che si bruciano sul cadavere del marito?» scrive la Torriani ne La gente per bene. «A patto ben inteso, che i vedovi si brucino un pochino anche loro sul rogo delle mogli.»

Rileggere Un matrimonio in provincia mi ha spinto a riflettere su qualcosa che troppo spesso dimentichiamo al giorno d’oggi. «Ed io in quella casa brutta con quelle abitudini laboriose e casalinghe e quell’uggioso marmocchio sulle spalle, colla sua faccina vecchia da figlio di vecchi, mi struggevo di maritarmi» afferma Denza, ricordandoci che c’è stato un tempo in cui non avevamo altra scelta che trovare marito. In cui passavamo dalla potestà di un uomo a quella di un altro. In cui il matrimonio era l’unica via di uscita; ma non era detto che fosse un inizio, anzi: saltavamo da una polla di acqua stagnante andando a finire in un’altra. È buona cosa ricordarselo. Riflettere sul fatto che ora siamo libere di non farlo, o di farlo con consapevolezza, affinché sia davvero l’inizio di un cammino fianco a fianco a un compagno. E non dove rimaniamo un passo indietro.

A rendere degno di lettura questo insolito romanzo ottocentesco è anche il finale, per niente ottocentesco, né romantico, ma di un realismo divertente e spiazzante.

Silvia Roncucci

Foto in alto: Maria Antonietta Torriani alias Marchesa Colombi

Settembre 2022: Donnaridens: Dorothy Parker, Dal diario di una signora di New York

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