Oggi pubblichiamo il racconto Fine del gioco, di Erika Filardo. Ricomporsi nell’apnea dell’attesa per riemergere intera.
Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.
FINE DEL GIOCO di Erika Filardo
Ti dico: Alzati e cammina! Non hai un solo osso rotto
I. Bachmann
Sto con gli occhi chiusi e aspetto. Posso aspettare anche diversi minuti prima che la parola venga detta. Se non sento la parola non è possibile continuare la procedura, non porto l’attenzione alle parti del corpo che solo la voce proveniente dal telefono mi può indicare. Io e Lila siamo in videochiamata. Questo è un incastro previsto dal Programma M., che seguiamo entrambe. Ci siamo incontrate grazie al gruppo whatsapp che conta quasi mille partecipanti: lo scorrere dei messaggi è frenetico e si susseguono a tutte le ore del giorno, fino alla notte. Chi è disponibile? Io, quindi ci si chiama e si fa la sessione. Guardo nella chat persone che si propongono, dichiarano inesperienza, chiedono attenzione, offrono la loro. Sono entrata nel gruppo M. mentre si alzava il polverone attorno a realtà digitali quali Mia Moglie e Phica. Spazi virtuali in cui materiale non autorizzato, in formato audiovisivo, si sposta da uno sguardo all’altro, da una mano all’altra. L’attività principale è degradare. Ogni immagine ha vita breve, la si imbratta, la si consuma e la si disintegra con un clic mentre si passa a quella successiva. Compulsione famelica, infoiata collettiva, vituperio del branco: sul corpo immolato viene accesa la miccia della parola oscena e scatenata la brama e scaricata la collera. Bisogna avere fiducia nelle proprie risorse per mantenersi nascosti, il deep web insegna. Più si scende e più ci sono attività dispendiose, come la tratta dei bambini. Bisogna avere una grande determinazione per sfamare la parte di sé che la vita quotidiana nella società civile non riesce a saziare, dove gente schermata dalle buone maniere sfoggia pelle idratata per strette di mano alla luce del sole. Mi chiedo noi del Programma M. chi siamo, ora che ci guardiamo dentro. Cos’è che non funziona nelle nostre vite, per cui ci affidiamo alla voce di un estraneo che ci guida per stanare un dolore, fugare un fantasma, scavallare un blocco, lasciare emergere un desiderio. Dove lo senti? E via nel corpo, a dare la caccia alle sensazioni che scavano tra stomaco petto gola e la testa gira, un fuoco sale dai piedi alla nuca, piangi e annaspi e qualcuno dall’altro lato dello schermo insiste: lascia che ti strozzi, arrenditi! E poi di nuovo nei piedi nelle gambe nelle mani nelle braccia nella colonna vertebrale nella testa: Dove lo senti ora? Come cambia? Fino a quando il groppo si scioglie, ritorni a respirare e non sei più spalle al muro; sei al centro di qualcosa, forse è il tuo spazio, forse quel qualcosa sei tu.
Nel corpo ci sono stata poco e a farmelo scoprire non è stato il sesso, è stato il mare. L’ho scoperto nuotando sott’acqua dove sono tutta muscoli e nervi, senza voce. E sento il montare dell’onda mentre aspetto che arrivi la parola della mia compagna Lila, che mi guiderà verso l’attivazione del corpo, una parte dopo l’altra. Molti anni fa queste stesse parti – cosce polsi schiena testa – sono state attivate a furia di schiaffi, cazzotti e calci. In ogni colpo vieni espulsa dal centro – fine del gioco. Eppure, quello che si ricorda non è tanto il dolore fisico, sono gli insulti: le parole si sono infiltrate nella pelle e ogni volta che sudi il calore di quella vecchia melma che si scioglie ti fa venire un mancamento, uno spasmo, un irrigidimento oppure una reazione scomposta, una crisi di nervi, un pianto convulso. Sono le cose che hanno detto di te quelle che restano impresse e, di tanto in tanto, senza preavviso si riaccendono, riecheggiano e ti ritrovi a sbandare – stavi rischiando di schiantarti nel guardrail o di svenire alla cassa del supermercato o di soffocare tuo figlio al seno. Tornano anche adesso quelle parole – non flosce per gli ultimi sfiati del passato, ma polpose, irrorate di sangue – per metterti spalle al muro e, vedrai, nessuna reazione andrà bene, nessuna tua mossa creerà uno spazio di risoluzione del conflitto. La tua risposta non vale niente. Quando mi nascondevo nell’armadio e contavo i passi – con le sue gambe lunghe arrivava subito – sentivo l’impotenza dei bambini; ora penso alla loro fiducia cieca, al primo grande tradimento che subiranno e di cui si daranno la colpa. Anche tu sei rimasta una bambina, una bambina viziata che non sa condurre la propria vita e ha abbandonato tutti i condottieri che avrebbero potuto guidarla verso una grande riuscita! Anche tu sei un’impunita. E ora sei qui, nell’orbita di un nuovo mentore, e drizzi le orecchie, sei diffidente disincantata furiosa e aspetti che dall’altro lato dello schermo arrivi la parola della tua compagna che è in missione con te e sta scalando la sua montagna, per cui la parola deve penare per riuscire a emergere – abbiamo dimenticato quale impresa è imparare a parlare? Tutto lo sforzo che hanno fatto i bambini per mettersi in comunicazione con gli adulti e questi pronti a far ricacciare la voce in gola e a lasciare che si gonfiasse dentro come una bolla d’aria? Stai zitto, non rispondere, non piangere!
La balbuzie di Lila è iniziata quando era bambina e l’ha protetta da emozioni troppo forti per il suo corpo troppo piccolo – meglio che non esca questa voce così non dovrai sentirla rifiutata. Non azzardare quella parola pericolosa, morditi la lingua e resta col sapore del sangue nella bocca serrata. Quando poi tocca a me guidarla e lei dice: Non sento niente, riesco a vedere la bolla d’aria che blocca il passaggio delle parole; lei stringe gli occhi e dondola come per rimescolarle e pescare quella giusta e spingerla su fino a bucare la bolla, per ritrovarsela in bocca e sentirla finalmente risuonare nello spazio del nostro incontro. Ma chi vuole attendere una parola senza anticiparla, sostituirla, dirla al posto dell’interlocutore, affrettarsi per passare alla propria? Chi vuole fare questo senza guardare l’orologio, picchiettare sul tavolo, muovere nervosamente le gambe, spostarsi sulla sedia? Chi vuole mai vivere l’insofferenza dell’attesa di una parola che non ci serve perché ne produciamo a bizzeffe e le sputiamo e le spaliamo continuamente? Chi vuole aspettare di sentire questa benedetta gravosa ennesima parola? Le dico: Lila, ho tutto il tempo del mondo. Me l’ha insegnato nuotare sott’acqua, dove un’apnea di pochi secondi sembra eterna; dove non sei spalle al muro, lì, nel silenzio in cui non giunge nessuna offesa e il presente è muto e devi risalire per prendere aria, fare la fatica di venirne fuori, devi compiere la stessa traversata di quella parola che non arriva e che qualcuno, in tensione sulla superficie, aspetta.
Chi siamo noi ora che, a furia di guardarci dentro, riusciamo a vedere il punto in cui la nostra vita si è spezzata? Io mi sono ricomposta nell’apnea dell’attesa e la spunto anche stavolta e riemergo intera per resistere alla parola di Lila.
Erika Filardo
Foto in alto: Elaborazione grafica di Erna Corsi
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Nota biografica
Erika Filardo, laureata in Sociologia, si interessa della relazione tra dimensione esistenziale, produzione artistico-letteraria e immaginario. Scrive saggistica, poesia e narrativa. Suoi contributi sono apparsi su riviste culturali, di settore e in volumi antologici.

