Pillole di femminile – Storie piccole che raccontano un mondo grande #91

Pillole di femminile, Una stanza tutta per gli altri di Alicia Giménez-Bartlett
«Se questo diario non l’avessi scritto io e un bel giorno dovesse cadere nelle mie mani, cercherei di scrivere un romanzo su Nelly.»

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Nel romanzo Una stanza tutta per gli altri, edito da Sellerio, Alicia Giménez-Bartlett racconta l’intricato rapporto tra Virginia Woolf e la sua domestica Nelly.

«All’inizio del secolo il numero dei domestici nelle case era ancora molto alto. Nessuno affrontava in modo pratico il problema di quante persone di servizio fossero necessarie in rapporto al lavoro da svolgere. E non era una semplice questione di sfoggio. No, la servitù c’era perché c’era sempre stata, e nessuno concepiva una famiglia per bene che ne fosse priva. Sei domestici era un numero medio che permette di farsi un’idea. Tuttavia in alcune famiglie abbienti, ma non necessariamente dotate di grandi fortune, potevano facilmente essercene dieci. Nel caso dei Vanderbilt, dei Rotschild e di altri milionari di quei tempi, non se ne contavano mai meno di venti per ciascuna delle case da loro possedute. Gli Stephen, genitori di Virginia Wolf, avevano otto domestici al 22 di Hyde Park Gate.

Durante la guerra la situazione cambiò radicalmente. Per le donne vi era la possibilità di lavorare e di ottenere buoni salari nelle fabbriche, tanto che la manodopera femminile cominciò a scarseggiare. Soprattutto perché le ragazze più giovani presero a considerare il lavoro domestico come poco desiderabile, non tanto per la sua durezza, non va dimenticato che cos’era il lavoro la catena di montaggio per lunghissime giornate, quanto per l’isolamento a cui si vedevano costrette vivendo all’interno delle case. Se poi i signori risiedevano stabilmente in campagna o trascorrevano diversi mesi all’anno in una seconda residenza, i domestici si ritrovavano completamente prigionieri. Ma anche in città era difficile fare amicizia o muoversi con libertà. La stessa Virginia Wolf, nei suoi diari, conclude che era per lei fonte di grande disagio il fatto di tenere due ragazze chiuse in cucina mentre lei e Leonard stavano in salotto.

Tuttavia, per quanto il numero delle lavoratrici domestiche fosse calato durante la guerra, continuavano a essere molte le ragazze la cui unica prospettiva era servire. In primo luogo per il problema della casa. Se le loro famiglie d’origine erano prive di mezzi e avevano molti figli, come in genere succedeva, era molto meglio non occupare spazio. Per non parlare del sollievo dato alla precaria economia familiare, che si trovava una bocca in meno da sfamare e un paio di piedi in meno da calzare. Il caso dell’orfanelle era ancora più chiaro. Una donna sola non poteva comprarsi una casa né prendere una stanza in affitto dove dormire. Quindi era costretta a rimanere nell’isolamento, convivendo in maggiore o minor misura con la famiglia per la quale lavorava.

Per nessuno dei padroni ciò rappresentava un particolare problema: le ragazze lavoravano, rimanevano in cucina e andavano a dormire nella loro stanza. Un giorno alla settimana potevano uscire. Un mese dell’anno avevano diritto a una vacanza. Perché allora per Virginia Wolf questa situazione creava un clima spiacevole? In primo luogo perché era un intellettuale progressista, secondo il canone classico. Per lei i rapporti patriarcali con il servizio erano superati, non poteva comportarsi con due ragazze che l’aiutavano come una regina distante e autoritaria. Qual era dunque il punto giusto equilibrio? Era difficile da stabilire, sfuggente, e poi non si poteva sperare che fosse correttamente inteso dalle domestiche. Questo disagio lei lo ha avvertì fin dall’inizio. Fu sempre uno dei suoi sogni infatti poter fare a meno del servizio, che per lei costituiva tanto un aiuto quanto in peso. Ma con il suo impegno alla Hogart Press, con la scrittura, con la sua fragilità di salute, chi si sarebbe occupato di certi compiti indispensabili?»

La pillola di oggi è un estratto da Una stanza tutta per gli altri di Alicia Giménez-Bartlett.

Serena Betti

Foto in alto: Elaborazione grafica di Erna Corsi

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