Alessandra Minello: questo non è un paese per madri. Cosa si può fare?

Alessandra Minello
Intervista alla demografa sociale che nel suo ultimo saggio affronta un tema caldo, e non solo d’estate, alla ricerca di possibili soluzioni.

Mi sono imbattuta in questo libretto dal formato accattivante della collana Saggi Tascabili Laterza un sabato pomeriggio in cui ero in cerca di costruirmi le basi su Cormac McCarthy. Ebbene sì, chiedo venia, non ho mai letto i suoi libri, ho solo visto i due film più famosi. Volevo prepararmi a leggere il suo ultimo che sarebbe uscito di lì a poco. Sono rimasta però incuriosita dal titolo del piccolo libro verde che, parafrasando appunto una delle opere più famose dello scrittore americano, mi pareva dicesse una verità tutta italiana: questo non è un paese per madri. L’ho divorato, l’ho esaminato, ho imparato molto leggendolo. Poi ho contattato l’autrice per conoscerla e continuare a capire assieme a lei.

Alessandra Minello è ricercatrice in Demografia al Dipartimento di Scienze statistiche dell’Università di Padova e studia le differenze di genere in Italia e in Europa negli ambiti del sociale (scolastico, familiare, lavorativo). Qualche mese fa ha contribuito alla stesura dell’ottava edizione del Rapporto annuale sulla maternità in Italia a cura di Save the children, in cui vengono analizzati i motivi e le conseguenze del fatto che, purtroppo ci siamo arrivati, nel 2022 il nostro paese ha toccato il minimo storico delle nascite.

Alessandra, perché Il Mito della Madre?

«Ho un dottorato in sociologia e un percorso di carriera nella ricerca sempre al confine tra demografia e sociologia e questo spero che nel libro si senta: rispetto alla classica demografia cerco sempre di dare una interpretazione sociologica agli eventi demografici. Il libro contiene, e a suo modo “racconta”, l’incontro di questi due elementi; praticamente è il risultato di nove anni di ricerca sui temi delle differenze di genere: ho iniziato a occuparmene anni fa, ai tempi se ne parlava molto meno di adesso. Avevo appena terminato il dottorato, e non ho mai smesso. Credo di essermi accorta semplicemente, durante i miei studi, durante le mie ricerche, che esisteva un filo rosso che univa tutto ciò di cui mi occupavo e che quel filo era il Mito della Madre.»

Lei ha figli?

«Sì, ho un figlio.»

Come è stata per lei l’esperienza di maternità da donna lavoratrice in ambito accademico, qui in Italia, un Paese che lei non esita a definire non adatto alle madri?

«Mah, guardi… come tutte le altre donne e madri in accademia ho avuto un ritardo nella carriera rispetto ai miei colleghi maschi. Loro in quel momento hanno letteralmente continuato a corrermi davanti. A un certo momento, però, ho capito che non avevo bisogno di affannarmi a star loro dietro, che avevo la fortuna di non averne bisogno e che potevo rallentare e gestire in maniera più semplice la mia vita personale. Ho quindi cercato di vivere il più tranquillamente possibile quel rallentamento, anche se non è stato sempre facile, perché in alcuni momenti le ingiustizie sono state palesi e la fatica si è fatta sentire. Consideri che io a tutt’oggi faccio la pendolare, vivo a Firenze e lavoro a Padova e non è semplice. Cerco di concentrare le ore di insegnamento tutte in un semestre e nell’altro semestre mi occupo esclusivamente di ricerca, che più spesso posso fare da casa. Ho sentito comunque tutto intorno a me la pressione del mito della genitorialità, soprattutto in quel periodo e non tanto dalla mia famiglia quanto dall’esterno.»

Ha parlato di suddivisione tra fasi dedicate all’insegnamento e interi periodi di ricerca. Nel suo saggio lei affronta e analizza il diverso approccio che in molte occasioni le docenti universitarie hanno nei confronti degli studenti rispetto ai loro colleghi maschi: è come se si dedicassero ai discenti con una cura e una dedizione maggiori rispetto ai tanti colleghi uomini, dedicando loro più tempo, anche al di fuori dell’orario di lavoro. Scrive anche che spesso questa è una cosa che la donna “si autoimpone”. Perché, secondo lei?

«Allora, c’è da dire che io amo molto più fare ricerca rispetto a insegnare; non so se ciò è dovuto al fatto che non essendo avanzata nella mia carriera non sempre insegno ciò di cui ho maggior competenza; se  lo facessi molto probabilmente non sentirei questa differenza in modo così marcato. Chiaramente mi sono concentrata di più sulle carriere accademiche sia perché ho avuto la possibilità di osservare da vicino alcuni schemi di comportamento e situazioni che si ripetono costantemente, sia perché ci sono degli step di carriera ben definiti e misurabili (si entra e si progredisce per concorso, quindi è molto semplice quantificare la produttività secondo regole ben definite e consolidate). Fatto sta che guardandomi attorno, in accademia, ho visto e vedo rivolgere tante richieste di aiuto alle docenti e non ai docenti, i quali vengono coinvolti molto più di rado; richieste, queste, che non vanno a incidere sulla carriera delle insegnanti stesse, che non portano ad alcun riconoscimento o avanzamento o a un aumento del bagaglio di conoscenze che un docente costruisce come utile al proprio percorso accademico, bensì richieste “al di fuori”, compiti che non c’entrano nulla con tutto ciò di cui sopra e che non vengono affidati ai colleghi uomini in egual misura. C’è come una percezione delle attitudini femminili pilotata dalla tradizione, dal mito della “donna che cura meglio dell’uomo”.»

Da dove nasce questa riflessione?

«Questa è una riflessione nata da uno studio che ho fatto tempo fa sulle mediche di base: è stato dimostrato che, mentre i medici e le mediche vengono valutati sulla base di un criterio che è quello del numero di pazienti che seguono, non si tiene conto che le donne, proprio per queste attitudini che sentono di avere o che si convincono di avere, o che la società intera attribuisce loro ormai da secoli, dedicano più tempo al singolo paziente e cercano con più attenzione l’anamnesi. Insomma, non prediligono le soluzioni brevi e ciò chiaramente le svantaggia nei percorsi di carriera.»

Sempre in quel capitolo del libro lei affronta anche il tema della genitorialità durante la pandemia. Com’è nata questa riflessione e “misurazione” che ha riportato in questa parte del suo saggio? 

«Sì, durante il 2020 mi si è presentata un’occasione in quanto, scrivendo già da tempo per InGenere, ricevetti un invito da Nature per analizzare il fenomeno Genitorialità e Pandemia e ho quindi raccontato la mia esperienza di madre e di docente universitaria durante il lockdown. In mezzo ad aneddoti tragicomici, tipo quello di mio figlio che suonava la trombetta durante le mie lezioni a distanza, di me  che registravo le lezioni di notte, sono nate riflessioni importanti su come in quel periodo venissero divisi i compiti relativi alla cura della casa e della prole tra le madri e i padri. So che anche Paola Profeta ha studiato a fondo il fenomeno qui in Italia, rilevando che l’andamento è stato molto simile a quello avvenuto in Germania per esempio, dove è stato osservato che inizialmente c’è stato un avanzamento nella suddivisione di tali compiti in maniera paritaria, che però è andato progressivamente diminuendo via via che si susseguivano le ondate di Covid per poi tornare alla normalità, ovvero molto più nelle mani, e sulle spalle, delle donne.»

Alessandra Minello
Alessandra Minello, Non è un paese per madri

Altro argomento che lei affronta nel suo saggio è, accanto al Mito della Madre per le donne italiane, il Mito del Lavoro per i maschi (italiani e non solo, mi permetto di dire). Secondo lei, perché? Si potrà mai affrancarsi da  questi meccanismi?

«Oggi  non solo agli uomini è sempre più richiesto di essere molto performanti nel mondo del lavoro. Viene chiesto anche alle donne, perché ne fanno sempre più parte. Il senso di colpa di un uomo di fronte alla perdita del lavoro a causa di una crisi economica, per esempio, è di natura diversa rispetto a quello della donna che lo sviluppa, al contrario, quando si allontana dai figli per dedicarsi al lavoro. Inoltre è lenito, appunto,  dal verificarsi di cause di forza maggiore sulle quali il soggetto che le subisce non ha potere. In generale comunque, uomini e donne sono di sicuro accomunati dalla preoccupazione di non riuscire a dare ai figli tutto il necessario per crescere bene. D’altronde il senso di colpa della madre di fronte al doversi allontanare dai figli per cause di lavoro è sempre presente e, per tradizione e cultura, non condiviso col padre, ma è pur sempre meno forte rispetto al passato: gli asili nido non sono ancora diffusi in maniera capillare come ci si auspicherebbe ma, laddove ci sono, sono molto usati e i numeri dicono che le famiglie vi si rivolgono con molta più frequenza; è socialmente più accettato ed emotivamente più facile, rispetto al passato, affidare i figli piccoli a dei professionisti della cura: è diventato molto più normale. Quindi sì, secondo me c’è una evoluzione generale riguardo all’affrancarsi da molti dei meccanismi del passato,  ma non significa che il Mito della Maternità non sia ancora schiacciante. Alle donne adesso è richiesto di essere performanti e competitive nel lavoro, e in tutta una serie di altri ambiti che contribuiscono alla creazione della identità propria, che è molto più variegata rispetto al passato: non è più incentrata solo sulla genitorialità o solo sul lavoro, bensì è sempre più composita.»

Una frase che lei riporta in un capitolo del suo libro mi ha colpita tanto, quella di Michela Marzano: “Una madre non può certo pretendere di essere perfetta ma avrebbe il dovere di essere sufficientemente capace di prendersi cura di chi non ha chiesto niente”. È chiaro che i tanti lavoratori giovani e  precari sulla scena italiana giocano un ruolo determinante in questo,  si vedano anche gli episodi di affidamento  di neonati alla Culla per la Vita accaduti pochi mesi fa, seguiti dalle reazioni di giornalisti e di chiunque si sia sentito in dovere di dire qualcosa in proposito. Cosa ne pensa?

«Indubbiamente è così. A me di quegli episodi ha colpito innanzitutto la mancanza di rispetto nei confronti della decisione della madre, la volontà di delegittimare una decisione di quel tipo e di offrire soluzioni quando le soluzioni non erano richieste, oltre alla diffusione di informazioni private di cui sinceramente non comprendo proprio la ragione; a preoccuparmi era anche la possibilità di un effetto rimbalzo, che avrebbe potuto disincentivare altre persone dal fare quel gesto di affidamento (e non di abbandono, ripetiamolo). In realtà poi, nei giorni a seguire, sono stata quasi “tranquillizzata” dal secondo caso ravvicinato, che mi ha fatto pensare che forse tutta quella spropositata eco mediatica avesse, invece, informato altre persone in difficoltà dell’esistenza di tale possibilità. Chiaramente due soli casi ravvicinati non fanno statistica, non si possono trarre conclusioni generali, ma mi hanno fatto riflettere.»

L’Alessandra Minello insegnante ha mai l’impressione che i ragazzi della generazione Z, gli adolescenti e post adolescenti attuali, dietro gli schermi dei loro pc chiusi nelle loro camerette siano progressisti e “vestano” arcobaleno, e poi  magari entrano in cucina e chiedono mamma-cosa-c’è-per-cena mentre i loro padri lavorano fino a tardi? Ovvero che i ruoli di maschi e femmine all’interno delle loro mura domestiche siano ancora molto tradizionali?

«Non so, io credo che il cambiamento sia un fenomeno generazionale, e che i frutti di ciò che è in atto li vedremo più avanti; anche la mia generazione, per esempio, aveva atteggiamenti in adolescenza e post-adolescenza molto diversi da quelli che poi ha assunto nel momento in cui ha lasciato la casa genitoriale. Penso anche che la generazione dei giovani attuali abbia una percezione davvero più fluida di tutto ciò che riguarda la sessualità rispetto alle generazioni precedenti. Questo chiaramente non significa, come diceva lei, che si rifletta pari pari negli ambiti domestici e in generale nella loro vita oppure che lo farà anche e soprattutto in ambiente lavorativo, dove dovranno convivere col confronto intergenerazionale e saranno sicuramente influenzati da quelle dinamiche e da quegli schemi a cui ancora si attengono le generazioni precedenti alla loro. È comunque una generazione che mi affascina, mi piace e mi piacciono le domande che si pone, sia in termini di genitorialità ad esempio, sia in termini di cambiamento climatico. Tempo fa sono stata a Genova per lavoro e ricordo bene un ragazza che mi ha detto che la sua è la generazione che ha sperimentato la rottura della coppia genitoriale, il dissolversi dell’unione di coloro che li ha messi al mondo, ma che al contempo sperimenta sempre più forte il desiderio che un figlio nasca laddove la coppia è per sempre. C’è questo scollamento tra la situazione che vivono e quella che  desidererebbero vivere. Per loro è tutto un chiedersi ce la faremo? come faremo? Ovviamente io la risposta non ce l’ho, ma il fatto che una giovane ragazza mi abbia riportato questa domanda mi ha fatto pensare che il loro “per sempre” è ancora legato a una tradizione italiana, cattolica se vogliamo, legata a valori del passato. Chissà quali mezzi si inventeranno per fronteggiare la crescente dissoluzione delle unioni e come riusciranno a vivere la loro genitorialità. Di sicuro ci pensano, e la vedo una cosa positiva.»

Sì, credo proprio di sì, Alessandra. E a proposito di valori della nostra vecchia, stanca, Italia: lei conclude il suo saggio con una frase breve ma che esprime un concetto attorno al quale io, ma credo anche tante altre donne e molti uomini, abbiamo girato a vuoto per anni senza riuscire a scriverlo e sintetizzarlo come ha fatto lei: «L’Italia, per diventare un paese per madri deve prima decostruire il mito della maternità. Drastico, forse, ma l’unica via possibile.» Non ho bisogno di chiederle altro, questa frase riassume tutto in maniera perfetta. Grazie della sua attenta analisi, della sua pacatezza e della sua lungimiranza.

Elena Marrassini

Foto in alto: Alessandra Minello

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