Denatalità in Italia, un diabolico circolo vizioso che va interrotto

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È necessario forzare il cambiamento, imponendo vincoli e offrendo incentivi, nella speranza che la forzatura possa diventare un equilibrio naturale, spontaneo.

Dal quarto numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, un approfondimento sulla denatalità nel nostro paese. Scarica il PDF della rivista o sfogliala online.

L’ultimo rapporto Istat certifica un trend di costante invecchiamento della popolazione italiana. Da un lato il calo delle nascite (380mila soltanto, nel 2021), dall’altro un’aspettativa di vita che si alza ancora (84,8 anni). Una combinazione che, nelle previsioni dell’Istituto di Statistica, porterà i cittadini residenti in Italia dagli attuali 59,2 milioni a scendere sotto i 58 milioni nel 2030 e addirittura sotto i 50 nel 2070. A meno di provare un approccio finalizzato a invertire quello che sembra un declino inarrestabile.

Denatalità e welfare

Le conseguenze di tale situazione si riflettono infatti su diversi temi economici e sociali, per le implicazioni sulla crescita e sul sistema di welfare. Attualmente il rapporto tra individui in età lavorativa (per consuetudine la fascia 15-64 anni, anche se l’età pensionabile è destinata ad alzarsi) e quelli al di fuori (bimbi e anziani) è stato di 3:2 nel 2021 ma è previsto che scenderà fino a 1:1 nel 2050. Avere un numero inferiore di persone che lavorano è un problema per il prodotto interno lordo, per la sostenibilità del debito pubblico ma anche per tutti quei servizi sociali alimentati dalle tasse, pensiamo alla sanità pubblica o agli strumenti di tutela delle categorie fragili. Altro tema legato alla denatalità, spesso sottovalutato nelle analisi, è la sua ripercussione sui centri abitati, destinati a un progressivo spopolamento, a partire dalle zone montane e rurali per arrivare alle città. La sovrabbondanza di alloggi potrebbe portare a una crisi immobiliare, con l’eccesso di offerta che farebbe crollare il prezzo delle nostre abitazioni, magari ancora onerate da un mutuo contratto sul valore originale.

Tra vent’anni, una famiglia su quattro sarà composta da una coppia con figli, ma più di una su cinque non ne avrà. E non basterà l’apporto degli stranieri a risolvere la crisi in attesa di esplodere, serviranno politiche familiari coraggiose e aggressive: ecco un buon modo di spendere il cosiddetto PNRR. Va però abbandonata una credenza da anni instillata da certa politica, e cioè che le donne emancipate, istruite e lavoratrici non facciano più figli soltanto perché la famiglia è scesa in basso nelle loro priorità o perché è più facile l’accesso agli anticoncezionali, per non dire del diritto all’aborto.

Occupazione femminile e natalità

È vero che, nei Paesi evoluti, esiste una certa relazione inversa tra maggior grado di istruzione e minor natalità, ma solo nel primo periodo della curva, quando cioè le donne iniziarono a volere per se stesse qualcosa di più. Confrontando i dati più recenti, relativi agli ultimi dieci anni, notiamo che natalità e occupazione evidenziano un fenomeno quasi lineare: nei Paesi dove donne intelligenti, preparate e soddisfatte della propria carriera possono scegliere di avere una famiglia, anche numerosa, perché sostenute da un sistema normativo che da un lato incentiva gli imprenditori e dall’altro garantisce servizi alla natalità e supporto economico ai genitori, nascono molti bambini, quindi a una maggiore occupazione femminile corrisponde un più alto tasso di natalità.

In altri Paesi, invece, il rapporto non è così lineare, e a una maggiore occupazione femminile corrispondono meno nascite. L’Italia rappresenta una sorta di anomalia a livello continentale: noi siamo l’unica nazione in cui entrambi gli indicatori sono bassi e in calo: qui solo una donna su due lavora (siamo penultimi a livello europeo, davanti solo alla Grecia) e si fanno sempre meno bambini. Le ricerche fondano la motivazione principale nelle difficoltà ad affermarsi sul mercato del lavoro e agli ostacoli nel conciliare lavoro e vita familiare.

Il gender gap in Italia

Le donne sono pagate in media il 29% in meno di un uomo con la stessa mansione (gap che sale al 40% per le pensioni percepite) e rappresentano tre quarti dei contratti part-time, tipicamente discriminanti sia in termini di stipendio sia per le prospettive di carriera. Nel nucleo familiare la differenza tra uomini e donne sul tempo dedicato alla cura della casa e dei figli è di tre ore e mezza alla settimana e il gap resiste anche quando entrambi lavorano a tempo pieno. Anche qui siamo agli ultimi posti del ranking europeo, con i Paesi nordici dove tale differenza scende a meno di un’ora.

In termini assoluti, sono due ogni dieci le donne che rinunciano al lavoro per i figli, mentre tra i licenziamenti complessivi sono circa il 40% quelli avvenuti in seguito a una gravidanza. Per non parlare del tracollo lavorativo in tempo di Covid, dove il peso della cura dei figli a casa da scuola è gravato in massima parte sulle donne. Diversi studi dimostrano come a ruoli familiari bilanciati corrisponda un aumento del numero dei bambini, in un’equivalenza tra natalità ed equità che è necessario venga compresa e accolta nelle politiche governative. I sondaggi mostrano come le donne italiane vorrebbero più figli di quelli effettivi; forse, se non fossero l’anello debole nel lavoro e potessero contare su maggior sostegno, dallo Stato e dall’altra metà, nascerebbero più bimbi.

Incentivi, investimenti e incertezze

Nel nostro Paese, oltre alla persistente resistenza culturale per cui una donna sta bene a casa, mancano quegli incentivi che potrebbero ridurre le incertezze che frenano la maternità. Servono investimenti nei servizi all’infanzia, sgravi fiscali per i neo-genitori (già, i bambini costano molto!) ma anche un sostegno all’occupazione femminile, con incentivi per il datore di lavoro. Gli imprenditori più illuminati, ma ancora pochissimi, hanno introdotto il nido aziendale o anche un sistema di compensazione dell’orario di lavoro in base alle necessità. In alcuni Paesi, tra cui Svezia e Olanda ma anche Germania e Regno Unito, questo è perfino normato a livello di contratti collettivi, anche se è evidente che non sia possibile generalizzare per tutti gli impieghi e tutti i settori.

Una spinta importante alla natalità in questi Paesi è venuta dall’introduzione del permesso di paternità, specie in quelli dove è obbligatorio che almeno una quota dei permessi cumulati tra i genitori sia utilizzata dal padre. Dove è stato introdotto un criterio di interscambiabilità tra madre e padre per usufruire del congedo, la natalità è tornata a crescere. Non può essere una coincidenza: la “daddy quota”, come viene scherzosamente chiamato il periodo esclusivo per il padre, viene abitualmente sfruttata in Germania come in Svezia, perfino nella fredda Islanda. Sono gli stessi Paesi che, pur con strutture diverse, garantiscono anche un’indennità economica giornaliera, in soldi contanti, ai genitori solo se entrambi sfruttano appieno i propri diritti in termini di congedo cumulativo.

Si può in questo modo contribuire a ridurre il gap occupazionale, producendo al tempo stesso un beneficio sul benessere dell’intera famiglia, perfino del bambino. Ci sono numerose evidenze di un miglior sviluppo cognitivo nei bambini che vengono seguiti fin dai primi mesi anche dal papà, legato al clima di condivisione, di mutuo sostegno e al rapporto speciale e unico che si crea con entrambi i genitori. In un impeto di triste realismo, questi effetti positivi possono mostrarsi utili anche nel caso di una separazione tra i genitori, traducendosi in traumi più circoscritti per i piccoli, già abituati a due “gestioni” simili ma molto diverse. Inoltre, il coinvolgimento del padre nella cura del bimbo lo rende più consapevole e preparato, elementi che portano un eventuale giudice a propendere per l’affidamento congiunto.

Il doppio reddito e la “famiglia naturale”

Il modello familiare più comune in Europa è quello definito “a doppio reddito”, in cui entrambi i genitori lavorano e contribuiscono al mantenimento e alla gestione del gruppo. Per i Governi non si tratta quindi di intervenire su una presunta “famiglia naturale”, archetipo caro a quella politica che vuole mettere confini al posto delle libertà, bensì di creare le condizioni per ridurre le paure e incertezze che attanagliano le giovani donne, e non solo loro. Mettendo da parte la sterile ideologia, la realtà intorno a noi mostra una donna che vuole sentirsi indipendente e libera, sia da uno stereotipo arcaico di famiglia, sia sotto il profilo economico; vuole sentirsi apprezzata e valutata per le sue competenze, pretende di guadagnare quanto un uomo e di trovare una realizzazione nella carriera.

Vuole la possibilità di aver voglia di una famiglia tutta sua, di poterla creare con la garanzia di non perdere nulla di quanto faticosamente ottenuto, di poterla mantenere condividendone i carichi con l’altra metà ma anche con uno Stato che metta in campo tutele e misure specifiche.

Gli interventi efficaci esistono

I punti su cui è possibile lavorare sono moltissimi, anche prendendo esempio dai Paesi dove la curva demografica è tornata a salire. Imparando da “quelli bravi”, gli interventi più efficaci vanno in due macro direzioni: le imprese e la rete sociale. Si tratta di creare incentivi fiscali per favorire il rientro al lavoro delle neo-mamme, per la creazione di nidi aziendali e di orari flessibili sul modello delle “banche del tempo”; si deve poi intervenire sul gap salariale e pensionistico, per dare alle donne stabilità economica e toglierle dal giogo delle dimissioni in bianco.

Sotto il profilo sociale, bene il congedo parentale, ottimo – come si è visto – quello obbligatorio per il padre, in modo da scardinare preconcetti radicati in secoli di storia riluttante al cambiamento. Ma serve un ulteriore sforzo, un sostegno economico concreto ai neo-genitori, che sia sotto forma di reddito integrativo in busta paga oppure in sede fiscale con deduzioni e detrazioni significative per le spese di mantenimento della prole. Strumenti che devono essere per tutti, proporzionali al reddito ma indirizzati a tutti, anche ai professionisti affermati – che poi sono uno dei target principali che un intervento di questo genere deve avere per non implodere in efficacia. In Italia, sono proprio i nuclei benestanti, con un buon lavoro, quelli riluttanti a mettersi in gioco allargando la famiglia.

Altro target necessario sono gli stessi datori di lavoro, che devono essere invogliati a pensare un modello alternativo, devono avere incentivi per creare e sostenere forza lavoro femminile. Il modello attuale in Italia è piuttosto deprimente: partendo dal presupposto che assumere una donna comporta un rischio maggiore per assenze e produttività, le imprese preferiscono gli uomini, si sentono giustificate per la paga inferiore alle donne e investono molto meno nella loro crescita professionale. Ecco quindi che le donne perdono motivazione e, disilluse da un mondo lavorativo “per soli uomini”, sono più propense a licenziarsi, confermando di fatto la convinzione imprenditoriale che siano tempo e risorse sprecate. Un diabolico circolo vizioso da cui si esce solo forzando un cambiamento, imponendo vincoli e offrendo incentivi, nella speranza che la forzatura possa diventare un equilibrio naturale, spontaneo.

Anche questo, però, va considerato come un inizio, una specie di ostacolo grosso prima di affinare l’obiettivo finale. Il risultato di una politica di questo tipo non può infatti essere misurato in modo banale, registrando un aumento numerico dei bimbi e una crescita nei livelli di occupazione delle madri. Un intervento a sostegno della natalità deve favorire e stimolare un vero cambiamento culturale, che permetta di superare la dicotomia figlio-carriera in cui una donna è condannata a scegliere e lasci apparire anche l’altro genitore nel quadro familiare.

Barbara Salazer

In alto: Foto di Yan Krukov su Pexels 

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