Incontro con Marina Pierri: quando la storia inizia davvero

marina pierri
Intervista alla scrittrice e giornalista televisiva specializzata nell’analisi della rappresentazione femminile alla scoperta del femminismo intersezionale.  Dal secondo numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto

Iniziamo con una domanda di rito: se dico L’Altro Femminile, lei cosa pensa?

«In linea di massima, non trovo i concetti di femminile e maschile, di per se stessi, tanto interessanti da essere messi in discussione. Quindi se mi dice “l’altro femminile” il problema per me è proprio “il femminile”. Ho un grande dubbio su questa percezione di genere che rimane a metà tra quello che consideriamo un insieme di doti tipiche dell’essere femmina, quasi avesse base biologica. Questo non mi ha mai particolarmente convinta, mentre credo che la nozione stessa di femminile vada un po’ ridefinita sapendo che molto spesso si identifica semplicemente con una serie di regole assimilate in relazione al comportamento del genere.»

Chi è Marina Pierri? Qual è il suo percorso di formazione e come è arrivata a concepire il libro Eroine, che noi tutte abbiamo letto?

«Io sono stata abbastanza privilegiata da poter frequentare delle scuole importanti: ho studiato all’Università di Bologna e all’Università di Berkeley, ho anche fatto degli studi a Parigi per preparare la mia tesi. In seguito, ho avuto l’opportunità di viaggiare tantissimo anche negli Stati Uniti. Sono nata prima come critica musicale e poi con il tempo mi sono specializzata in critica sulla serialità, in un periodo in cui la serialità televisiva non era quello che è adesso. In realtà continuo a lavorare anche con la musica perché lavoro per Opera Music. Di me posso aggiungere che sono femminista da quando ero molto giovane anche se è un processo in divenire: non si finisce mai e non ci si sente mai arrivate. Nasco da una madre femminista ma il mio percorso è differente e molto lontano dall’essere finito. Spero di continuare ad avere il privilegio di avere tempo per me, per i miei studi, per continuare ad approfondire tutto quello che per me è stato importante specialmente negli ultimi due o tre anni. Sto parlando degli studi legati al femminismo e quelli legati alla percezione della donna nella società, quindi anche tutto ciò che è ombra del femminile, tutto ciò che invece fa paura della femminilità, che è un tema che mi interessa particolarmente.»

Com’è maturato il suo lavoro? Cioè, qual è stato il viaggio per compiere la sua opera?

«Eroine è la mia opera prima. È sempre strano con il proprio primo lavoro perché in un certo senso si ha avuto tutta la vita per pensarlo. Eroine è sicuramente frutto di tanto del mio lavoro da giornalista, un capitolo della mia vita che penso si sia concluso. Il libro è il prodotto anche delle tante interviste che ho fatto, dell’aver indagato come funziona la televisione contemporanea. Tutto questo è convogliato in Eroine. Ripeto: il primo libro è sempre il frutto di tutto quello che è avvenuto fino a quel momento e quindi, in qualche modo, è stato un suggellare una parte della mia vita. In contemporanea e di conseguenza ne è cominciata un’altra: abbandonare il vecchio e accogliere il nuovo. Eroine è nato perché volevo restituire quello che avevo imparato. È un libro di gratitudine soprattutto nei confronti della serialità televisiva ma anche delle persone che mi hanno dato l’opportunità di entrare in profondità in quel mondo. Sono state veramente tante e direi quasi tutte donne. Ci sono stati anche uomini, però devo dire che io sono stata anche in questo senso abbastanza privilegiata, inoltre ho sempre incontrato donne che mi hanno teso la mano e continuo a incontrarne. Donne con cui costruire, con cui creare, gettare ponti. Trovo terrificante la frase “le donne sono nemiche delle donne” perché non è assolutamente vero. Se le donne sono nemiche delle donne è perché c’è sistematicamente qualcuno che mette le une contro le altre utilizzando tutti quelli che sono i metodi patriarcali e che ben conosciamo: fare sentire una migliore dell’altra, una più importante dell’altra, una più apprezzata dell’altra generando così sentimenti di rabbia che, anziché essere diretti verso le persone che le manovrano, vengono diretti verso la donna che, a volte inconsapevolmente, invece sostiene l’agenda del comodo maschile rispetto alle donne. Questo lo vedo spesso; continua a succedere, ancora oggi, sotto i miei occhi.»

marina pierri - eroineNon sono sicura che i lettori e le lettrici della nostra rivista sappiano esattamente che cos’è un archetipo e cos’è l’inconscio collettivo.

«Ci sono decine di centinaia di libri che lo spiegano, è una domanda complessa. Quello che posso dire è che per comprendere che cos’è un archetipo è necessario comunque addentrarsi nella letteratura degli archetipi che è comunque molto scivolosa. Per Jung, ad esempio, gli archetipi non sono conoscibili se non tramite il loro riflesso, la loro immagine; cioè la maniera con cui vengono rappresentati, vale a dire i simboli nei quali sono racchiusi. Sicuramente il concetto di archetipo non è facilmente inscatolabile. Jung lo definisce come un contenuto psichico inconoscibile che arriva alla coscienza soltanto grazie al simbolo che poi è l’immagine, l’effige, che però contiene tanti archetipi. Quindi quando vediamo, per fare un esempio, Wonder Woman (che possiamo riconoscere come l’archetipo della guerriera, l’archetipo della Pallade Atena) ma anche archetipi che hanno a che fare con le divinità greche, con Afrodite – perché Wonder Woman è un’amazzone – allora in quel caso più che parlare di simbolo parliamo di gruppo simbolico così come di gruppo archetipico. È molto complessa la geografia degli archetipi tanto più che io ho utilizzato gli archetipi-personaggio che si abbinano al viaggio dell’eroe e dell’eroina perché altrimenti veramente si rischia di perdersi.»

Come è accaduto che un libro come Eroine, incentrato sull’analisi della fiction, sia diventato quasi un corso di scrittura creativa come “il viaggio dell’eroina” insieme a Francesco Trento? Come ha adattato il libro sulla fiction a un corso sul viaggio dell’eroina?

«Io non percepisco una grande differenza tra le due cose. Il corso e il libro si assomigliano veramente tanto: il viaggio dell’eroina è un potente strumento di scrittura e di conseguenza in realtà adattarlo per il corso di Francesco Trento è stato molto semplice. Uno è stato sicuramente costruito sull’altro ma non ne è semplicemente la replica. Ho cercato di strutturare un corso che fosse semplicemente come leggere il mio libro, ho cercato di dare di più, più che potevo.»

La sua scrittrice preferita e la sua regista preferita?

«Registe preferite ce ne sono tante, sicuramente adoro Jane Campion e Alice Rohrwacher. Inoltre mi piacciono Chloe Zhao, ovviamente, e Giulia Ducournau, anche se faccio molta fatica con i suoi film perché ho tantissima paura ma comunque li guardo e sono meravigliosi. Adoro Celine Sciamma, mi piacciono Greta Gerwig, Agnes Varda e molte altre. Io amo l’idea di uno sguardo femminile, mi interessa moltissimo il concetto di female gaze purché sia declinato nella maniera giusta, come fa per esempio Joey Soloway. Mi piace osservare come funziona questo sguardo, che è uno sguardo del sentire più che del vedere e questo mi sembra molto interessante, tant’è che Joey Soloway parla del feeling seeing

Com’è arrivata al femminismo intersezionale?

«In realtà è stata una conquista alla quale mi sono avvicinata tramite Instagram, i libri e lo studio. Non ci si rende conto di quanto sia centrale il concetto di privilegio, non si sa fino a che punto questo sia rilevante fino a che non si inizia ad avvicinarsi al femminismo intersezionale e a comprendere che, comunque sia, non basta essere dalla parte delle donne. Si impara che non esistono “le donne”, esistono tantissime donne diverse con tantissime storie, esigenze, pelli, vissuti, orientamenti sessuali differenti, corpi differenti. Capire questo vuol dire avvicinarsi al femminismo intersezionale, ed è una grande liberazione. Si tratta di una pratica, ossia il femminismo intersezionale “si fa“. Nel senso che si impara che il femminismo intersezionale è una pratica e questa pratica è il pensarsi come persona portatrice di un privilegio che tante volte è invisibile a se stesse. Per me è stata una grande scoperta, una grande liberazione perché dire “io sono femminista perché sono una donna e sono una donna che ce l’ha fatta” non è sufficiente.»

In Italia secondo lei com’è la situazione da questo punto di vista?

«In Italia ci sono tantissime donne straordinarie che portano e che raccontano il femminismo intersezionale, quindi secondo me la situazione è abbastanza buona. Certamente potrebbe essere migliore se non fossimo costrette a dire sempre le stesse cose e se ci fosse anche una maggiore attenzione da parte dei media anche a banalità come, per esempio, il linguaggio che si utilizza di fronte a una serie di fatti di cronaca, sia che si tratti di razza, di femminicidio, di stupro o di violenza. È molto, molto importante lavorare su questo aspetto. Per quanto mi riguarda il tema, il mio tema, sono le storie. Spero con il tempo di riuscire a lavorarci sempre di più e di far passare quelli che sono appunto i messaggi del femminismo intersezionale attraverso le narrazioni.»

In una ipotetica società nata matriarcale, come ad esempio quella dei Mosuo in Cina, il viaggio dell’Eroina sarebbe ancora indispensabile o subirebbe delle modifiche?

«Certamente subirebbe delle modifiche perché il viaggio dell’Eroina è fortemente condizionato dal privilegio. Se vengono modificate le posizioni di privilegio si modifica anche il viaggio. Diversamente ricadremmo nel biologismo. Dire “C’è viaggio dell’eroina lì dove c’è utero” significherebbe escludere tantissime donne. Il viaggio dell’eroina è assolutamente legato alla percezione socioculturale della donna all’interno della società. Se la società cambia e se i costumi cambiano questo cambia di conseguenza. Le necessità di liberazione sarebbero diverse, ci sarebbero sempre ma si modificherebbero.»

Io non ho altre domande. C’è qualcosa in particolare che vorrebbe che raggiungesse il pubblico?

«Per me è molto importante stimolare le donne ma non soltanto le donne, anche chiunque sia o faccia parte di una categoria marginalizzata, a utilizzare la propria voce fosse anche per farsi largo, per raccontare la propria esperienza dal di dentro. Io mi auguro che nelle società ci sia sempre più spazio per chi vuole raccontare una storia, per chi vuole raccontare la sua storia, per chi vuole raccontare il proprio vissuto. Ritengo sia molto importante proprio il tema di trovare la propria voce in una società che tende a soffocarla.»

Laura Massera

Foto in alto: Marina Pierri

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