Ma io resto qui, tra le mura di questa casa che mi hanno vista felice

ma io resto qui
La casa diventa allegra ancora una volta e si riempie di musica e di risa. […] Corro e gioco in mezzo alla gente […]. Dal secondo numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto.

Nella mia breve vita sono stata, tutto sommato, felice. Anzi, sono stata felice, senza tutto sommato. Ho vissuto otto anni in una casa splendida, grande, che pareva ancora più grande ai miei occhi di bambina. Un camino enorme riscaldava l’atrio e io d’inverno mi ci sedevo dentro ad ascoltare le storie che mi raccontavano. Al piano terra, oltre al grande ingresso col camino, c’era la stanza dove pranzavamo, con sedie di legno dall’alto schienale e un ampio tavolo scuro, e la cucina, dove trascorrevo buona parte delle giornate invernali e dove la cuoca mi lasciava pasticciare con uova e farina. Poi cuoceva il mio dolce e lo mangiavamo a cena, io, la mamma, il papà e i figli della sua prima moglie. I miei fratelli erano tutti più grandi di me, stavano poco a casa e non mi dedicavano molto tempo, ma io me li ricordo ancora bene. C’era anche una grande stanza con i miei giochi dove trascorrevo le lunghe giornate di pioggia. Ne avevo molti: puzzle, libri di storie, animali di pezza e un cavallo a dondolo tutto di legno che il mio papà aveva costruito per me e dipinto con i miei colori preferiti, il giallo del sole e il rosso del fuoco. Me lo aveva regalato quando ero molto piccola, ma io mi ci sono divertita anche da grande, dondolandomi con gli occhi chiusi e immaginando di galoppare nei campi in sella a un cavallo vero. Nella casa c’erano anche le dispense, dove la cuoca riponeva conserve e marmellate, e quel miele dolcissimo di cui non ho mai saputo la provenienza. Ogni tanto ne rubavo un barattolo, spostando gli altri in modo che non si vedesse lo spazio rimasto vuoto, ma credo che lei sapesse quello che facevo e manteneva il segreto per evitarmi una sgridata. C’era anche una cantina fredda dove conservare i cibi freschi e il vino, in botti alte quanto me. Al piano di sopra, su un lungo corridoio che a me piaceva attraversare di corsa, si aprivano le porte delle camere, e anche la mia era lì. Ne avevo una tutta per me, con il letto a baldacchino pieno di cuscini colorati, un armadio per gli abiti e i giochi e un tavolo dove scrivere e disegnare, sempre ingombro di fogli.

Eravamo in molti ad abitare qui e, quando vivevamo tutti felici insieme, c’erano tante persone che alloggiavano in mansarda e che ci accudivano. Mia mamma non doveva fare mai niente e aveva tanto tempo da trascorrere con me. Mi ricordo molto bene della cuoca, che è stata quasi una seconda madre, sempre indulgente e sempre pronta ad accarezzarmi con le sue mani arrossate dal fuoco e dal freddo; vedo ancora le ragazze che pulivano, tutte giovani, e la domenica si vestivano e si acconciavano con cura e, con la scusa di andare a messa, stavano fuori tutto il pomeriggio; il giardiniere, un ometto basso e grassoccio che seguivo sempre e che, mentre si prendeva cura delle piante, mi raccontava con pazienza tante cose su di esse e mi insegnava a riconoscere quello che cresceva nel nostro giardino.

Il nostro giardino: circondato da un muretto, girava tutto intorno alla casa. Un angolo era destinato all’orto e una parte al frutteto, mentre il resto era un grande prato bordato di fiori, inondato dal sole d’estate e sferzato dalla pioggia e dal vento d’inverno. A me piaceva stare a guardare dalle finestre il temporale che si abbatteva sull’erba, una volta sono anche uscita sotto la pioggia scrosciante. Faceva freddo e mi sono beccata un bel raffreddore, oltre ai rimproveri della mamma; sono stata ammalata e distesa a letto per alcuni giorni, ma la sensazione delle grosse gocce di pioggia che battevano sulla mia pelle nuda non me la sono più dimenticata, e devo dire che l’infreddatura è stata un misero prezzo da pagare per un’esperienza come quella.

Gli otto anni in cui sono vissuta sono stati molto felici, l’ho già detto. I miei genitori davano spesso feste alle quali partecipavano tante persone: arrivavano con le carrozze trainate da cavalli ben strigliati e le signore avevano abiti splendidi e gioielli luccicanti. Venivano anche dei musicisti, e gli invitati ballavano, in gruppo oppure a coppie. Io non avevo il permesso di entrare nel grande atrio illuminato per l’occasione, ma quando la ragazza che si prendeva cura di me durante quelle serate si addormentava, sgusciavo via dal letto e mi nascondevo in una cameretta da dove, attraverso una piccola finestra, sbirciavo nella stanza accanto. Da lì riuscivo a vedere tutto, a sentire lo scalpiccio dei piedi impegnati nella danza e le risate delle donne ai complimenti dei loro cavalieri. Le note riempivano la casa e io immaginavo il giorno in cui non mi sarebbe stato più impedito di prendere parte a eventi così belli. Ero sola a osservare, perché non c’erano altre bambine con me, ma avevo un’amica, la bambola di pezza che mi aveva cucito la mamma. Aveva un vestito verde scuro e i capelli neri, e la portavo sempre con me. Conosceva tutti i miei segreti e condivideva i miei giochi.

La mattina, correvo di buon’ora in cucina dove la cuoca mi dava una grossa fetta di pane e io la inzuppavo nel latte appena munto oppure partivo alla ricerca di qualcosa da mangiarci insieme: della frutta, un uovo, un confetto. Poi me ne andavo in giro fino all’ora di pranzo, mentre nel pomeriggio venivano delle persone a farmi lezione. Sapevo leggere, scrivere e contare. I miei genitori dicevano che, se avessi imparato tante cose, avrei avuto un marito ricco e una vita interessante. Spesso, nei sogni, fantasticavo sulla vita da adulta: la mia casa sarebbe stata grande, ben arredata e circondata da un giardino, mio marito mi avrebbe amata almeno quanto il papà amava la mamma e avrei avuto tanti bambini che avrebbero giocato insieme. Avremmo viaggiato e la nostra casa sarebbe stata teatro di tante feste, sempre piena di gente.

Poi però un giorno il papà non è più tornato, e la mia vita è cambiata. Tutti piangevano e ho sentito dire dai miei fratelli che era morto. A me nessuno ha mai raccontato cosa fosse successo, non si davano spiegazioni a una bimba così piccola. La mamma è diventata triste, i miei fratelli si sono trasferiti uno alla volta e io sono rimasta sola con lei. Finché è arrivato lui. Si è presentato all’improvviso con un grosso baule, si è sistemato qui e non se ne è più andato. Non ho mai saputo come o dove si fossero conosciuti, ma la mamma sembrava felice, così sono stata zitta anche se quell’uomo mi inquietava. Non era cattivo, non ci ha mai picchiate, trattava me con gentilezza e lei come una regina. Ma era geloso, di una gelosia malata. Considerava mia madre di suo possesso e nessuno poteva distrarla da lui. Nemmeno io. Noi due potevamo stare insieme solo quando lui si allontanava da casa perché altrimenti, nei momenti in cui io richiamavo l’attenzione della mamma, lui la reclamava subito per sé. Senza arrabbiarsi, con calma, ma lo faceva, e in un modo che era meglio non contraddire: metteva i brividi.

Non mi sono accorta che stavo morendo lentamente. Sono stata avvelenata in circostanze mai chiarite, ma io so chi è stato: l’uomo che voleva mia madre, e che la voleva senza di me. Chissà da quanto tempo mi stava uccidendo. Forse quando usciva di casa era proprio per procurarsi il veleno. Goccia dopo goccia, mi ha riempito le vene e il corpo. Sono scivolata in un sonno strano, non dormivo realmente e percepivo quello che succedeva intorno a me, ma la mamma credeva che dormissi, non riusciva a svegliarmi e piangeva. Ho saputo che lui mi aveva avvelenata solo dopo che sono morta, quando si capiscono tante cose. Non sono mai riuscita a odiarlo perché lui non l’ha fatto con consapevolezza. L’ha fatto perché era malato e credo che non abbia mai compreso del tutto le conseguenze di questa sua azione. Mi è dispiaciuto tantissimo per la mamma che ha sofferto molto. Lui ha avuto presto la sua punizione, perché lei l’ha uccisa il crepacuore poco tempo dopo di me e i domestici se ne sono andati in tutta fretta subito dopo il funerale. È rimasto solo nella grande casa che è diventata fredda e buia e non è venuto mai nessuno a trovarlo, salvo il parroco, ogni tanto. Ha vissuto lunghi anni in tristezza e solitudine fino al suo ultimo respiro. Io mi aggiravo per casa stando ben attenta a non farmi sentire, ma avrei potuto correre e saltare, lui non si sarebbe mai accorto di me. Lo trovò il parroco una mattina, raggomitolato nella poltrona accanto al fuoco ormai spento. Era morto da ore.

Questo posto è rimasto vuoto, però io non me ne sono mai andata. Non ci sono più luci, né fuoco acceso, né la risata della mamma. Ma io resto qui. I miei fratelli l’hanno venduta a una famiglia che non ci abita ma che ogni tanto ci fa festa, e allora la casa diventa allegra ancora una volta e si riempie di musica e di risa. Io corro in mezzo alla gente con i miei stivaletti marroni e il vestito azzurro con un nastro legato in vita. Corro e gioco in mezzo alla gente, aspettando che qualcuno mi veda e scriva la mia storia.

Paola Gradi

In alto: foto di Federico Burgalassi su Unsplash

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