LAB2: etica e consapevolezza nella danza che va oltre la danza

LAB 2 - Foto di scena
Raccontare attraverso il linguaggio del corpo perché, come afferma Marta Costantini, «la danza è un linguaggio, un modo di comunicare che arriva anche a chi non se ne intende di tecnica.» Dal secondo numero della rivista.

Molti di noi sono abituati a pensare la danza e il balletto solo come espressione corporea di grazia e leggerezza. I movimenti legati alla musica sono coinvolgenti per lo spettatore tanto quanto per l’artista. Possono divenire anche espressione di potenza e di forza, ma le ballerine di LAB2 hanno preteso di più da loro stesse. Hanno unito la loro passione con quella che sentivano una necessità: portare l’attenzione del pubblico su grandi temi sociali, perché ogni goccia è importante in un mare da riempire. Abbiamo incontrato Marta Costantini, coreografa e ideatrice del gruppo, per conoscere i loro progetti.

Chi sono le ragazze di LAB2 e come si è formato il gruppo?

«Le ragazze di LAB2 sono danzatrici con molta esperienza che arrivano da percorsi diversi. Alcune sono con me da molti anni, altre si sono unite recentemente. Oltre a me ci sono Alice Bicego, Anita Notario, Aurora Babbi, Lucrezia Calandrino, Martina Soso e Matilde Coccapani. Nella vita sono studentesse, medici o impiegate, ma tutte con un’infinita passione per la danza. Il gruppo è nato con me nel 2013 con l’intenzione e la voglia di danzare in uno spazio nostro, libero e creativo nel quale abbandonare le etichette. Nel 2017 si è unita Michela Oldin che ora è co-coreografa. Ognuna di noi porta il proprio bagaglio: quello tecnico e quello umano. Li mescoliamo tutti insieme come fossero ingredienti, cercando il modo per far uscire il meglio di ognuna di noi. È sempre stata la mia grande passione e il mio più grande stimolo lavorare e creare con quello che ho a disposizione: si ottengono meraviglie prestando attenzione alle persone.»

Qual è l’idea di base che ispira le performance di LAB2?

«Raccontare! Ciò che siamo e che sentiamo, quello che succede fuori da noi ma che ci invade e ci scuote come esseri umani, ci passa attraverso e ci cambia, modificando il nostro futuro e quello dei nostri figli. Prendiamo una posizione nella società, ci mettiamo in gioco.»

Perché questa scelta così diversa dai soliti temi del balletto?

«Abbiamo fatto anche performance considerate “normali” e forse ne faremo ancora, ma non è la nostra strada. Le considero delle pause, perché costruire un progetto coreografico che parla di tematiche complesse è faticoso, si deve scavare molto, si deve sentire quello di cui vogliamo parlare. Il tema stesso ci passa attraverso, ci cambia. E lo fa anche durante l’esibizione di uno spettacolo: quando finisce e arriva il buio sulla scena siamo profondamente provate, più dentro che fuori. La parte razionale del “com’è andata? È piaciuto?” arriva molto dopo.»

Come è possibile coniugare questa scelta con la danza?

«La danza è un linguaggio, un modo di comunicare che arriva anche a chi non se ne intende di tecnica e questo è molto bello. Perciò credo fortemente che sia possibile raccontare attraverso il corpo. Non lavoriamo sull’astrattismo ma restiamo fedeli alla gestualità vera di quello che raccontiamo. Potremmo considerarlo teatrodanza ma si tornerebbe al mettere etichette che troppo spesso bloccano il flusso creativo.»

LAB 2 - Foto di scena
LAB 2 – Foto di scena

Quali temi avete trattato finora?

«Abbiamo parlato del grande dramma del nostro secolo, la migrazione. Un tema che ci coinvolge molto, così ampio che gli abbiamo dedicato due progetti: Le vie dell’acqua del 2017 e l’ultimo The game (2021). Invece con L’abito appeso del 2019 abbiamo affrontato il tema della donna, altra tematica complessa e che ci coinvolge direttamente. Partendo dall’esempio di alcune donne che hanno lottato per i diritti di tutte, abbiamo raccontato quanto sia difficile per una donna liberarsi da un’educazione patriarcale e da un ruolo imposto da una società, per poter finalmente rinascere. Infine, con Il nascondiglio del 2020 creato per il “Giorno della memoria” abbiamo raccontato un pezzo della nostra storia che non dobbiamo mai dimenticare.»

Come reagisce il pubblico?

«Abbiamo sempre avuto grandi soddisfazioni. Quando si porta al pubblico uno spettacolo così c’è sempre il dubbio che possa non arrivare il messaggio. Invece ogni volta c’è stata tanta emozione e per noi è l’aspetto più gratificante.»

L’ultimo spettacolo è stato preparato durante la pandemia. Come avete organizzato le prove?

«The game è nato in pandemia. Da ottobre a maggio abbiamo lavorato su piattaforma on-line. Io montavo le coreografie in uno spazio che è stato lavanderia o palestra a seconda delle ore del giorno e le ragazze lavoravano nelle loro stanze sulle mie indicazioni. Senza avere spazio a disposizione. Ma la cosa peggiore era non sentirsi, avere quel muro davanti e percepire sempre di più la frustrazione di quell’assenza di contatto. Poi finalmente le giornate si sono allungate, le restrizioni per il Covid si sono un po’ allentate e ci siamo trovate fuori, all’aperto. Abbiamo lavorato al parco giochi, mettendo insieme i pezzi, creando collegamenti, lavorando sull’emozione e siamo riuscite a realizzare uno spettacolo intenso, e per molti aspetti diverso.»

Quali progetti e quali prospettive ci sono nel vostro futuro?

«Il Covid ha cambiato molte cose nel settore artistico, creando instabilità e grandi difficoltà nell’organizzare il futuro. Le prospettive sono difficili da valutare ora. Continueremo a portare avanti l’idea di essere “ponte” tra mondi diversi ma esistenti nello stesso spazio. Continueremo a fare progetti di sensibilizzazione. Continueremo a danzare.»

Erna Corsi

In alto: LAB 2 – Foto di scena

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