Veronica Galletta: dalla Sicilia alla Sardegna per arrivare a Livorno

Veronica Galletta
Intervista a una ingegnera idraulica da sempre circondata da un mare di numeri e parole che, finalmente, sgorgano nei suoi libri.

Veronica Galletta è nata a Siracusa, ha trascorso parte della sua infanzia a Ozieri, in Sardegna, e adesso vive a Livorno con suo marito e suo figlio. Si è laureata in ingegneria civile idraulica all’università di Catania, conseguendo anche un dottorato di ricerca e ha lavorato per anni come ingegnera idraulica prima di intraprendere la carriera di scrittrice a tempo pieno. Ha scritto racconti pubblicati su riviste web come Colla, L’inquieto, e Abbiamo le prove. Con il monologo Sutta al giardino ha vinto nel 2013 il premio per monologhi teatrali PerVoceSola del Teatro della Tosse di Genova. Nel 2017, con Pelleossa, è stata finalista alla III edizione del Premio Neri Pozza. Il suo romanzo Le isole di Norman è stato finalista alla XXVIII edizione del Premio Calvino, arrivando nelle librerie nel 2020 (ItaloSvevo Edizioni) e aggiudicandosi il Premio Campiello Opera Prima. A ottobre 2021 è uscito per minimum fax il suo secondo romanzo, Nina sull’argine.
Conosciamo meglio “la mia labronica Veronica”, così la chiamo io, fin dai primi tempi in cui la seguivo sui social, dopo essere arrivata a lei attraverso contatti livornesi comuni.

Veronica Galletta - Nina sull'argineCom’è il rapporto con la sua città di adozione?

«Vivo a Livorno da diversi anni oramai, più di dieci. A fare il conto esatto, è la città nella quale ho vissuto di più nella mia vita. Il rapporto però, a pensarci bene, è quello che ho avuto con tutte le città in cui sono stata, almeno da adulta diciamo, da quando dopo la laurea ho lasciato la Sicilia. Le città mi piacciono in purezza, per così dire, mi piace girare per le strade, osservare i cambiamenti, i tagli di luce, i colori. Ascoltare le persone che parlano, senza entrare più di tanto in relazione. Livorno in questo senso è la città perfetta, perché nonostante appaia rumorosa e piena di picchi, sa essere molto discreta.»

Ricordo un suo pezzo letto sul web, anni fa, che mi è rimasto impresso, dal titolo Scrivo per cercare un mio posto fuori dai numeri. Ecco, leggendolo ho pensato che lì c’è quasi tutta la sua storia. Ce ne parla?

«Si trattava di un brano per la rivista I libri degli altri, che chiede a persone che scrivono, che siano edite o no, perché scrivono. Sì, in quel pezzo c’è dentro tutta la mia storia, e non è facile ora ricostruirla. La cosa credo più importante, che posso riassumere qui, è che negli anni ho scoperto che c’era un legame stretto fra i numeri e le lettere, per come li vivevo e interpretavo io. Fra il tipo di creatività e allo stesso tempo rigore che necessita lo studio delle materie scientifiche e l’esercizio quotidiano della scrittura. Per tutto il resto, direi che la cosa che ha più senso è mettere il link, per chi avesse voglia di rileggerla.»

Prima ho detto “quasi tutta la sua storia” perché si trattava di un brano del 2019, mi pare: poco più di due anni fa, e credo che questi ultimi due anni per lei, nonostante la pandemia, siano stati importantissimi, forse i più importanti a livello letterario, o sbaglio?

«Sì, è vero. Quando ho scritto quel pezzo non avevo ancora pubblicato nulla, nulla di cartaceo almeno. Dal 2020 sono arrivati invece i due romanzi, prima Le isole di Norman e poi Nina sull’argine, e i contributi alle antologie. E il Premio Campiello Opera prima, certamente, senza il quale molto del resto non sarebbe forse accaduto. Però ecco, “i più importanti” non so se è una definizione che userei. Semplicemente, si è avviata una macchina che stentava a partire. Per tanti anni ho continuato a scrivere, e i miei testi hanno girato per le redazioni delle case editrici senza riuscire a trovare una collocazione.»

Un’altra cosa che mi ha colpito molto di lei, seguendola assiduamente attraverso i suoi post spesso ispirati al suo quotidiano, è stato quel suo amore-odio per la primavera, in particolare per il mese di aprile. Esporre con ironia questo suo rapporto coi suoi cicli “down” me l’ha resa vicina, umana, amica. Secondo lei scriverne aiuta? Riesce a far nascere cose che aiutano a sentirsi “parte di”?

«C’è una premessa da fare, ed è che i social sono stati in questi anni per me una fonte di grande conoscenza. Mi hanno permesso di incontrare un mondo, quello dei libri e di chi ci scrive intorno, che mi era estraneo, perché facevo un lavoro diverso e avevo fatto studi diversi. Ma non è solo questo, è stato anche un posto dove ho stretto amicizie, ho partecipato a discussioni, ho letto contributi interessanti. E ho scritto, certamente. Di me, di quello che vedevo, di quello che mi capitava attorno. Fra questi, il temutissimo aprile, il mio mese peggiore. Ci sono tanti fili sottili e molto seri dietro la difficoltà che io, come tanti altri, incontro quando arriva la primavera, e la luce cambia, e muta l’umore. Di tutti questi fili, io ho cercato di manovrare quelli dello scherzo, dell’ironia come dice lei, forse perché mi sono sembrati quelli in cui mi muovo meglio. Forse perché dietro ci si nasconde meglio, e io in fondo sono una persona un po’ pavida. Per questo mi fa molto piacere che le mie invettive contro il più crudele dei mesi siano servite a qualcuno. Fra l’altro, siamo a gennaio: fra poco ricomincio.»

Lei è anche madre e moglie: come è cambiata la vita familiare quando la mamma, da ingegnera, è diventata scrittrice a tempo pieno, dopo la vittoria del Premio Campiello Opera Prima, con il suo romanzo Le isole di Norman?

«Sono le differenze fra un lavoro regolato su otto ore cinque giorni alla settimana, tranne emergenze, e uno senza molti paletti, se non quelli autoimposti. E quindi muoversi la sera, o nel fine settimana, per presentazioni o altri eventi, o rispondere al telefono anche in orari diversi. La differenza fra il lavoro come dipendente e quello non, credo. Quello che faccio quando sto seduta al pc, che prima era un collaudo di un’opera di difesa costiera, e ora è un capitolo o un articolo o un pezzo, non cambia molto.»

Veronica Galletta - le isole di normanLe isole di Norman narra di Elena, prima bambina e poi ragazza, e si snoda tra vicoli e rocce dell’isola di Ortigia, la parte più antica di Siracusa. Ha significato molto per lei scrivere una storia ambientata in quei luoghi e che parla di affetti che spariscono?

«Non ho cominciato a scrivere di Ortigia decidendo di ambientare la mia storia sull’isola, partendo da riflessioni o pulsioni di carattere sentimentale, anzi. Ho un rapporto molto contrastato con il ricordo, la memoria, la nostalgia. Detesto la nostalgia. Quello che volevo fare era rappresentare un momento della storia dell’isola, all’inizio degli anni ’90, in cui non c’era ancora il turismo di massa e tutte le storture conseguenti, tra cui la speculazione selvaggia e le difficoltà di un’economia deviata, che tanto lascia e altrettanto toglie. Inevitabilmente, anche senza rendermene conto, la storia di perdita si è amplificata quasi senza che io volessi, diventando una storia di perdita nel senso più ampio.»

Nina sull’argine invece ci porta dentro a un pezzo di vita di Caterina, giovane ingegnera responsabile, per la prima volta nella vita, dei lavori per la costruzione di un argine in pianura padana e, mi pare di capire, anche di un argine suo proprio: per contenere la sua vulnerabilità, le sue paure, i suoi fantasmi. Quanto c’è di autobiografico in questo suo secondo romanzo? Come è nato?

«La questione dell’autobiografia è sempre spinosa e di difficile trattazione. Posso dire che no, non è un romanzo autobiografico, ma che sì, è un romanzo che parte dalle mie esperienze, da cose che ho visto e fatto negli anni in cui ho lavorato a cantieri fluviali. Avevo il desiderio di raccontare un certo tipo di lavoro, i personaggi che lo abitano, e il paesaggio che li comprende, in un modo in cui tutto diventa paesaggio. Di autobiografico in questo romanzo, più di tutto, c’è lo stupore per la campagna, che io ho imparato proprio facendo questo lavoro. E poi il sentimento di impotenza che mi sono ritrovata a vivere in determinati contesti.»

I suoi due romanzi li ha scritti entrambi dividendosi fra cantieri e scrivania? Quale dei due le ha richiesto più energie, sia fisiche che emotive? Hanno dei punti in comune?

«Li ho scritti non ricordo neanche come, nei ritagli di tempo, il sabato e la domenica, nei giorni in cui non lavoravo. Per un periodo sono stata poco bene, assentandomi dal lavoro per alcuni mesi, e ne ho approfittato per scrivere intensamente. E ancora al pomeriggio, al parco con il bambino che era ancora molto piccolo. Le isole di Norman e Nina sull’argine sono due libri diversi, per trama, personaggi e ambientazione, è evidente, ma ancora, anche per lingua e costruzione. Le isole di Norman è nato con l’idea dell’alternanza fra passato e presente, e quindi il grosso del lavoro è stato quello, trovare l’incastro giusto. Stabiliti quali dovevano essere gli eventi del passato che dovevano riaffiorare, credo di avere fatto almeno una decina di prove diverse. Nina sull’argine è stato un lavoro molto diverso, tutto teso a equilibrare da una parte la lingua, dall’altra la presenza di ombre e fantasmi. Ed è stato di certo il più doloroso da scrivere, per il suo fluire rabbioso, quasi angosciante a tratti. Anche quest’angoscia, in fase di revisione, è stata oggetto di limatura, perché non travolgesse il lettore, annichilendolo. Per il resto, io li trovo uno il proseguimento naturale dell’altro. È come se Elena, protagonista de Le isole di Norman a vent’anni, arrivi a noi quindici anni dopo, nei panni di Nina, protagonista di Nina sull’argine, con una diversa esperienza, testa, idea del mondo. Per questo i due libri comunque si parlano, per piccoli dettagli, rimandi, analogie, di quelli “destinati ai risolutori più esperti”, diciamo così.»

Grazie a lei ho riscoperto anche una grossa fetta di bella musica e belle parole che avevo sepolto sotto alle responsabilità del mondo degli adulti; dai Cure ai Virginiana Miller, per capirsi. Lei che rapporto ha con la musica? Esiste un legame fra musica e scrivere?

«La musica esiste sempre per me, ho sempre studiato, guidato, lavorato e scritto con la musica. Non so se per me esista un rapporto diretto fra musica e scrittura, la musica in realtà non la conosco, e quindi non posso neanche pensare a strutture che richiamino le strutture musicali, per esempio. La musica entra nelle cose che scrivo quindi in maniera autonoma, attraverso citazioni, brani che il protagonista ascolta, suggestioni legate a qualche testo. Sempre legato quindi alle parole, e non all’armonia o alla composizione in generale.»

Solo un’ultima cosa: un grazie, per le cose che scrive e anche un po’ perché, incuriosita dai suoi numeri, credo di aver finalmente capito a cosa servono le torri piezometriche.

«Sono molto contenta di questa cosa, e spero allora che se ne ricordi ogni volta che apre un rubinetto, che c’è un cielo piezometrico steso sopra noi, come una coperta morbida, che veglia su di noi e protegge la pressione delle nostre docce. Sarà perché sono manufatti che ho studiato e amato molto, ma a me sembra una cosa molto poetica.»

Elena Marrassini

Foto in alto: Veronica Galletta

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