Fari, racconto di Isa J. Vinci

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«Mi ero fermata a osservare il faro bianco, rosso e svettante abbarbicato su un morso di roccia all’estremità del porto. Lo avevo immaginato resistere a una coalizione di vento e oceano […] prigioniero»

L’odore di pane fresco e dolci appena sfornati era il confine tra il mondo degli altri e il suo.
Era già tardo pomeriggio quando tornai inseguita da una folata di vento e foglie bagnate. Avevo camminato per ore sul ciglio di una scogliera verde e bruna, decisa a riprendere in mano la mia vita, a dare un taglio alle sciocchezze di cui quell’assaggio di libertà mi aveva riempito testa e cuore. Non che avessi una visione romantica di un muscolo, ma non avrei saputo dove collocare quel gomitolo di sensazioni, emozioni e che ne so, quella roba, insomma, che avevo accuratamente evitato per anni e adesso mi era franata addosso tutta assieme. Mi ero fermata a osservare il faro bianco, rosso e svettante abbarbicato su un morso di roccia all’estremità del porto. Lo avevo immaginato resistere a una coalizione di vento e oceano, una volta, cento, mille e mi era sembrato un monito: era prigioniero, il faro, non poteva far altro che cercare di non soccombere, ma io? Io ero ancora in tempo, potevo salvarmi, giusto? Sospirando, mi ero strofinata le mani arrossate dal salmastro.

Il giorno prima mi ero avventurata su stradine deserte per andare a visitare le rovine di un’antica abbazia. Per una come me perdersi era praticamente impossibile. Da quando lei se n’era andata, non avevo più mostrato il fianco all’imprevisto né abbassato la guardia. Non mi sarei più fatta fregare, tutto era una trappola, l’amore era una trappola, la vita e la morte erano una trappola, meglio costruirmi attorno una fortezza e avventurarmi fuori solo con la rotta ben chiara in mente. Mi aveva fottuta l’abitudine alla civiltà; tra quelle colline di torba e pascoli brulli non c’era connessione e senza connessione non c’erano mappe. Ero rimasta cinque minuti buoni a guardare lo schermo spento del cellulare, dapprima incredula, poi preoccupata: e adesso che dovevo fare? Davanti a me il sole di febbraio scendeva veloce oltre l’orizzonte e non c’era una sola casa in vista. Ero salita in macchina con lo stomaco chiuso da un misto di rabbia e ansia; come avevo fatto a essere così cretina da non aver messo in conto un inconveniente del genere? Non avevo la più vaga idea di quale direzione prendere. Decisi di proseguire verso il tramonto.
Perché? Non lo so.

Il suo era il primo negozio che avevo incontrato quindi mi ero fermata a chiedere indicazioni. Avevo avuto bisogno di qualche secondo per abituarmi alla consistenza dell’aria che ci si respirava: dopo tanto ossigeno sembrava soffice come un ricciolo di panna montana. Lei mi aveva osservata da dietro il bancone, un’ombra di sorriso sulle labbra. La prima cosa che mi aveva colpita era stato il suo modo gentile di guardarmi, faceva venir voglia di rassicurarla, “non temere, sarò gentile anch’io”. Il villaggio non erano che tre case e il suo negozio, il primo albergo distava un’ottantina di chilometri. Che la cosa mi avesse infastidita mi si doveva leggere chiaro in faccia perché aveva allungato una mano per posarla sul dorso della mia: «Se vuoi puoi rimanere qui per la notte. La casa è grande, non mi daresti alcun disturbo.»
Avevo mormorato un grazie imbarazzato e spostato lo sguardo sulla sua mano: non ricordavo più cosa si provava a sentire il calore di un’altra mano sulla mia.  Mi dava fastidio? No, e forse era proprio quello che mi spiazzava.

Eravamo rimaste a parlare mentre lei metteva in ordine per la chiusura e io ero così incantata da quella mano che aveva sfiorato la mia e, leggera e veloce, spostava, toglieva, riponeva, che mi ero dimenticata della mia inquietudine. Così, semplicemente. In cucina a preparare la cena continuavo a guardarle ammaliata la mano: sembrava che le bastasse sfiorare gli oggetti e quelli si animavano sotto il suo tocco, andavano dove dovevano andare, senza sforzo apparente; le sue dita avevano la grazia e la forza di quelle di un pianista. Mi ero chiesta se, se mi avesse toccata, toccata davvero con quella mano, forse non sarebbe riuscita a mettere in ordine anche me, ad animarmi. E per la prima volta dopo anni mi era venuto il dubbio di aver sbagliato tutto, che mi fossi solo illusa di aver costruito un mondo senza entrate: il calore di una mano bastava a buttar giù pareti di cemento erette con pazienza e testardaggine per anni, che cazzo mi ero nascosta a fare?

Avevamo acceso il caminetto e ci eravamo sedute di fronte al fuoco, in silenzio, uno di quei silenzi perfetti che fanno della pioggia furiosa e il vento all’esterno una musica. Ogni tanto la sbirciavo e poi mi vergognavo perché ogni sguardo era una fotografia di lei scattata senza il suo permesso. Il naso dritto e i piccoli solchi che le si formavano ai lati della bocca quando sorrideva, una cicatrice quasi invisibile sulla fronte, seminascosta dai capelli scuri, le fiamme che si riflettevano come code di cometa in caduta libera nell’azzurro scuro degli occhi: infilavo in tasca ogni tessera del puzzle che era. Mi ero sentita una ladra… no, non è vero, chi prendevo in giro? Stavo facendo esattamente quello che volevo fare, quello che neppure una fortezza senza entrate avrebbe potuto contrastare. Invece di arrabbiarmi, mi era scappato da ridere: quanto ero stata cretina, quanto tempo avevo perso e per un attimo avevo provato tenerezza per quella me stessa nascosta nell’angolo più inaccessibile della fortezza. All’improvviso mi ero perdonata e l’aria si era fatta spazio, quasi avessi spalancato una finestra sulla libertà.

Avevo scosso la testa e facendo un lungo respiro avevo allungato la mano verso la sua. Lei mi aveva guardata un attimo incerta, la testa piegata di lato come a chiedere “fai sul serio?” e, come se glielo avessi sentito dire davvero, risposi a voce alta “sì”.
Prima ancora del sapore delle labbra, mi era arrivato il profumo di capelvenere dei suoi capelli. Non ero inquieta, no, piuttosto stupita di fronte alla naturalezza con cui l’avevo lasciata fare e la padronanza con cui la esploravo. E dopo averle accarezzato a lungo la mano con cui mi aveva toccata, le avevo preso quella sostituita dalla protesi. Lei l’aveva ritratta fulminea, lo sguardo smarrito. Ma io l’avevo presa di nuovo: che avevo detto? “Sarò gentile anch’io, non temere”.
«Toglila» avevo mormorato.
Si era fermata incerta, guardando ora me, ora la protesi e alla fine aveva annuito, come a volersi scusare: «La sera mi fa sempre un po’ male.»

Lo so, avevo pensato, sono un medico, ma era un dettaglio così inutile in quel momento, anzi no, ogni parola era così inutile in quel momento che mi concentrai sull’unico suono che contasse davvero, quello del nostro respiro.
Io non so che magia mi avesse fatto, ma, quando alla fine ci eravamo addormentate, ero una donna diversa da quella che era arrivata in quel tardo pomeriggio dopo aver smarrito la strada.
Il mattino non illumina solo la superficie della terra, s’insinua ben più in profondità e che trovi cose preziose o rovine, le illumina imparziale. Mentre mi rivestivo, mi sembrava di essere quelle rovine, ero esposta, ero indifesa.
La libertà per una come me è una faccenda breve e fa spavento. Me n’ero andata di casa che lei dormiva ancora: non conoscevo altri modi per ferirla meno che dare un taglio netto, definitivo, farmi odiare un po’ nell’immediato per non dovermi far odiare di più in seguito.

Stavo mentendo a me stessa, è chiaro, il mio non era altruismo, ero solo terrorizzata all’idea di affrontarla e dirle perché dovevo andarmene. Sarebbe equivalso a confessare la mia vulnerabilità ed ero certa che le avrei consegnato la chiave del mio rifugio perché la sua era la sola mano che avrebbe potuto aprirlo.
Eppure non ero riuscita ad allontanarmi a sufficienza.
E non bastò la camminata sulla scogliera e non bastò il faro e non bastò la mia paura a tenermi separata da lei.
Era già tardo pomeriggio quando tornai inseguita da una folata di vento e foglie bagnate.

Fari - Isa J. Vinci
Isa J. Vinc

Pisana di nascita, cittadina del mondo per vocazione ed eremita felice per scelta, di Isa J. Vinci si fa prima a dire cosa non ha fatto che quello che ha fatto nella vita. Non si sa nemmeno bene cosa stia facendo attualmente. Voci di corridoio raccontano che se ne sta davanti al computer e a volte ride, a volte piange, spessissimo impreca e scrive, ma che cosa non è dato sapere. Chi vivrà vedrà. Nel 2019 ha pubblicato Malee, ed. Le Mezzelane, e nel 2020 21 Eighth Avenue, ed. LFA Publisher, i primi due volumi di una serie che ha per protagoniste Lesley Sheffield, caporedattrice di nera al New York Times, e la sua compagna Malee. 

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