«Sono quasi come lei, ogni volta un poco più vicina, ogni volta un qualche errore banale, ma rimediabile. Lei è la perfezione e io ambisco a emularla.»
Il vetro riflette mille scaglie iridescenti. Le stagioni passano, sole isterico, pioggia lurida, foglie secche come patatine fritte sparse da un gigante bambino, ghiaccio come tintinnanti rocks in un whiskey già sorseggiato.
Un minuto, non mi è concesso molto, la fretta, il tempo che non dà respiro, solo un istante per osservarla. I vestiti cambiano, sempre di gran moda, è lei a dettare legge nel quartiere. Il taglio di capelli è perfetto e le scarpe sono fastidiosamente adatte. Niente è fuori posto. Stivali di gomma con fiori variopinti, impermeabile in tinta e un rossetto scarlatto oppure tacchi alti, gonna corta, calze impreziosite da piccoli cristalli, un corpetto che lascia intravedere il seno alto e sodo. Un piacere per la vista e un’indicazione precisa su come vestirsi, su cosa sia giusto e cosa non lo sia.
L’osservo compiaciuta. Sono quasi come lei, ogni volta un poco più vicina, ogni volta un qualche errore banale, ma rimediabile. Lei è la perfezione e io ambisco a emularla. Potremmo essere sorelle anche se non ci conosciamo e le sorrido cercando di compiacerla, ma lo sguardo di lei è freddo e sprezzante e mi lascia ammutolita, forse umiliata. È bella e desiderabile e tutti resterebbero ore ad ammirarla, mentre io non sono che poca cosa nonostante i miei goffi tentativi di somigliarle.
La vetrina è il luogo magico dove ci incontriamo, siamo divise, e solo un battito di ciglia ci è concesso, ma è sufficiente. Autunno, primavera, inverno, estate. Collezioni per tutte le stagioni ci scorrono sul corpo come acqua fresca e nulla può nascondere la debole nudità del mio cuore e l’acciaio in cui lei è forgiata.
Lo scambio di sguardi è diventato un’abitudine. Mattino, pomeriggio e sera. Giorni festivi o settimane di lavoro. C’è sempre un momento per poterci confrontare. Parlare è impossibile e i colori dei tessuti, la foggia di abiti e gioielli sono il nostro modo di comunicare. A volte, inconsapevolmente, arriviamo a indossare le stesse cose, allora lei ride, ma la piega della bocca è cinica, crudele. La grana della mia pelle non può competere con la sua e qualsiasi cosa non starà mai bene su di me quanto su di lei.
La sconfitta non è bruciante, l’ammirazione è troppo grande per percepire tristezza o disappunto. Lei è il mio faro, la mia ragione d’esistere. Sino a che potrò scorgerla, fra lustrini e velluti, fra pizzi e sciarpe, la vita avrà senso e sarà degna d’essere vissuta. Ogni momento scelgo con cura ciò che potrebbe farle più piacere, impongo i miei gusti alla modista e spero di cogliere, un giorno, la sua approvazione.
Quanto tempo è trascorso? Un anno? Dieci? Crisi economiche o energetiche non ci hanno mai toccate, l’una negli occhi dell’altra per un istante prima di tornare ai nostri lavori, per un attimo appena, ma sufficiente.
Ripenso spesso al nostro primo incontro. Allora non c’era un cristallo costoso a separarci, ma un pannello di squallido plexiglass; il negozio aveva aperto da poco e non era ancora ben allestito. Eppure, nonostante il cattivo riflesso, le ditate unte su quella specie di plastica dalle velleità del vetro, ci vedemmo e da allora io fui perduta… Io indossavo le tanto contestate scarpe basse chiamate “ballerine” e un abitino di seta cruda arancione e vistoso, lei due zeppe di canapa intrecciata, una gonnellina a fiori stampati e una camicetta di pizzo San Gallo. Poteva permettersi qualsiasi abito, tutto le sarebbe sempre calzato a pennello.
Infine, oggi, qualcosa è cambiato. La pioggia ha reso viscido l’asfalto. Una frenata brusca, lo stridio inutile delle gomme. L’urto. Le schegge di vetro sono arrivate ovunque, persino dentro il negozio, noi siamo a terra, stravolte da stracci e detriti. Finalmente la posso toccare, le vorrei parlare, ma è tardi, troppo tardi.
Cosa esce dal suo splendido corpo? Un liquido rossastro e grasso sta imbrattando i nostri bei vestitini e sento un rantolo sempre più flebile uscirle dalla bocca. Io ho un braccio spezzato, schiantato di netto e volato chissà dove; il suo volto è una maschera di dolore eppure è ancora tanto bella, poi i suoi occhi diventano come i miei: vitrei. È finita.
Restiamo immobili sino a che non vengono a raccoglierci: lei con mille attenzioni, me con l’urgenza rude di ripristinare ordine e pulizia. Non riesco a trattenere le lacrime che sgorgano copiose sulle mie guance rigide. Una commessa mi osserva dubbiosa e parla con l’addetto delle pulizie. «Che macello! Hai visto questo manichino? Sembra che pianga!» L’uomo non guarda neppure mentre continua a strofinare con un grosso scopettone.
«Sarà la pioggia, questo fortunale è stato terribile! Hai ragione, che macello!»
Linda Lercari scrittrice di narrativa e poesia. Attrice presso la Re-Play di Pietro Malavenda. Fa parte di due gruppi di artisti: il TOF e I Nove Facoceri. È iscritta alla EWWA (European Writing Women Association). Pratica il kendo nella SKL di Lucca. Pubblica con HarperCollins Italia e Delos Digital con cui è bestseller Amazon.
In alto: foto di Here and now, unfortunately, ends my journey on Pixabay da Pixabay