Sara Meini: minuto per minuto la voce femminile per le donne che amano il calcio

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Dai primi esordi giovanissima alla radio fino alla diretta da bordo campo agli Europei 2025 della nazionale femminile di calcio.

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Alla fine di luglio, mentre gli Europei di calcio femminile volgevano al termine e la nostra nazionale aveva concluso il suo valoroso percorso, ho avuto il piacere e l’onore di incontrare Sara Meini.

La seguivo da tempo sui social e dai campi di calcio.

Ancora commossa dal discorso della capitana Cristiana Girelli, non ho resistito alla tentazione di contattarla per vederci prima delle rispettive partenze per le vacanze.

Chi è Sara Meini?

«Sono una giornalista professionista della TGR Rai Toscana, e lavoro anche per Rai Sport e Radio Rai. Ho quarantasette anni, e prima di essere giornalista sono mamma. Devo ammettere di essere nata con una passione innata per il calcio. Alle elementari, c’erano più maschi che femmine e a ricreazione giocavamo a pallone. I miei genitori, a cui il calcio non interessava affatto, non sapevano che io, figlia unica, desideravo giocarci fin da quando avevo sei anni.

In terza elementare, in un tema libero, scrissi la radiocronaca della partita femminile tra Fiorentina e Juventus: ancora la conservo. Ho praticato danza, nuoto e pallavolo, ma un giorno ho chiesto a mia madre di portarmi a giocare a calcio. Guardandomi incredula, mi rispose che per le ragazze non esisteva una squadra. In realtà, io sapevo già che ne esisteva una a Firenze, l’unica: l’Acf Firenze, l’attuale Fiorentina. Fu così che iniziai a giocare. Quella passione non mi ha mai abbandonata ed è diventata la mia professione, la cosa più bella che potesse capitarmi.»

Qual è stato il suo percorso formativo per arrivare a svolgere questa professione?

«Ho frequentato il liceo scientifico e, dopo il diploma, mi sono iscritta a Farmacia. Sono entrata tra le prime nonostante il numero chiuso, perché ero molto brava nelle materie scientifiche. Il problema era la frequenza obbligatoria: da quando avevo sedici anni lavoravo in radio, così la mattina, invece di andare all’università, andavo in diretta. A casa dicevo che ero a lezione, finché i miei non mi sentirono in radio. Le due cose non potevano coesistere, quindi abbandonai Farmacia per iscrivermi a Scienze Motorie.

Con il tempo, però, il lavoro ha preso il sopravvento e non sono riuscita a laurearmi. Mi mancano ancora pochi esami, e mi sono promessa che prima o poi li darò.

All’epoca, per diventare giornalista professionista non serviva la laurea; bastava essere assunti da una testata e fare due anni di praticantato. Io intanto ero stata assunta da Lady Radio, dove avevo iniziato giovanissima. Ho fatto tanta strada perché non mi sono mai fermata: lavoravo anche ventiquattr’ore su ventiquattro senza sentirne la fatica. È così che sono diventata giornalista professionista.»

Come è arrivata alla Rai?

«Ho superato il concorso in Rai a soli venticinque anni, ma ce ne sono voluti altri due prima che mi chiamassero. Ero a Cortina, alla presentazione di Bobo Vieri, quando il caporedattore della redazione Rai di Campobasso mi propose di lavorare lì per un paio d’anni. Poi andai a Cagliari e, nel 2008, tornai a Firenze.

La stabilità è arrivata solo nel 2012, con l’assunzione a tempo indeterminato. Fino ad allora, avevo avuto contratti brevi, al massimo di nove mesi. Molti colleghi si fermavano in estate, ma io continuavo a lavorare a Rai Sport a Roma con contratti a breve termine. La svolta arrivò dopo un lungo periodo di precariato e, nello stesso anno, il 2012, è nata anche mia figlia.»

È anche radiocronista di una trasmissione storica come Tutto il calcio minuto per minuto. Come è successo?

«È successo anche questo nel 2012, proprio quando avevo appena scoperto di essere incinta. L’allora caporedattore Rai, Riccardo Cucchi, insisteva da tempo per avere una voce femminile. Alla fine accettai e, dopo dieci anni di assenza, una donna tornò a quei microfoni. Le prime erano state Nicoletta Grifoni e Gabriella Fortuna, io fui la terza.

Sono molto orgogliosa di essere stata la prima a condurre la radiocronaca dallo stadio Artemio Franchi di Firenze, e anche la prima a farne una dall’estero, dato che fino a quel momento erano state solo maschili.»

C’è disparità di genere nel settore in cui lavora?

«È una domanda difficile. Molte mie colleghe le direbbero di sì, ma io, per fortuna o purtroppo, non ho mai notato disparità. Non so se dipenda dal mio carattere o dal fatto che sono nata dal “marciapiede”, dalla gavetta in redazione fin da giovanissima. Avevo la stessa passione, professionalità e serietà dei miei colleghi uomini. La mia era una passione per il gioco del calcio, non per i giocatori: andavo a vedere gli allenamenti della Fiorentina per ammirare come Lubos Kubik palleggiasse con l’esterno.

Non mi sono mai sentita in difficoltà o in disparità rispetto a un collega, anzi. Nelle redazioni in cui sono stata prima della Rai, spesso mi sono ritrovata al comando. Era più facile che fossi io a comandare una schiera di uomini, quindi a dire il vero non mi sono mai sentita in difficoltà. Credo che le uniche difficoltà che ho incontrato fossero legate alla carriera e sarebbero state le stesse anche per un uomo. Certo, all’inizio, quando ero giovanissima, ho dovuto subire qualche battuta, ma è anche qualcosa che mi ha insegnato a maturare. Parliamo di un’altra epoca, oggi non è giusto che una ragazza si trovi in difficoltà per una battuta sessista. Mi è capitato, però, di dover difendere colleghe che hanno subito molestie o che sono state messe da parte perché non accettavano quello che veniva loro richiesto.»

Ha consigli o suggerimenti per una ragazza che volesse intraprendere questa professione?

«Credo sia necessario fare una precisazione: stiamo parlando di giornalismo, non di veline, con tutto il rispetto per entrambi i ruoli. Per fare la giornalista o la bordocampista non conta essere una bella ragazza o mettere in mostra una scollatura. Sono ruoli ben diversi.

Per diventare giornalista serve professionalità, credibilità e, soprattutto, tantissima passione. È un lavoro a cui ci si consegna completamente, mettendo da parte tutto, anche la famiglia. È splendido, ma porta via tantissimo tempo e tutti i fine settimana.»

Seguendo squadre di calcio sia maschili che femminili, ha notato delle differenze nel loro approccio verso la loro professione?

«Ho notato una curiosa differenza nel modo in cui trascorrono il tempo libero in ritiro. Le calciatrici leggono, giocano a carte, a ping-pong o chiacchierano; in Svizzera, durante gli Europei, andavano persino in SUP. Nei ritiri maschili, invece, si gioca quasi solo alla PlayStation, che le ragazze non avevano neanche.

Un’altra differenza la percepisco nelle interviste: le calciatrici parlano almeno due o tre lingue, a volte anche cinque, e formulano risposte molto diverse dai loro colleghi. Credo che questo dipenda dai sacrifici che una giocatrice deve affrontare: ancora oggi, nel 2025, una bambina deve convincere i propri genitori per poter giocare a calcio. Sembra assurdo, ma è così. Ci sono state tante svolte, come l’introduzione del professionismo nella Serie A femminile dal 1° luglio 2022, che ha garantito stipendi più alti e contributi previdenziali, ma ci sono ancora tante battaglie da vincere.

La vera bellezza del calcio femminile sta nel fatto che ci si emoziona ancora. C’è rispetto, semplicità, cose che ormai mancano in quello maschile. Sono le giocatrici stesse a emozionarsi per prime, e questo, per chi come me ha vissuto il calcio femminile, permette di vivere una doppia emozione. Vedere un’attenzione così importante verso questo sport è bellissimo: ti rendi conto che anche i nostri sacrifici, per quanto piccoli, sono serviti a qualcosa.»

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Quali emozioni ha provato nel vedere da bordo campo la nazionale di calcio femminile agli Europei e ascoltare le parole della loro capitana?

«L’emozione più grande è stata vedere queste campionesse, che oggi sono vere e proprie idole, rappresentare l’Italia e il mondo femminile. È stato ancora più toccante vederle emozionarsi ai microfoni.

In particolare, il discorso della capitana Cristiana Girelli, davanti al Presidente Sergio Mattarella, è stato potentissimo. Ha detto: “Abbiamo preso la consapevolezza di valere, di poter sognare in grande e di far sognare le bambine che ci guardano.” Le giocatrici hanno mostrato che il calcio non è solo maschile: ora le bambine possono sognare di diventare come Cristiana Girelli, Sofia Cantore o Barbara Bonansea. Prima non c’era questa libertà. È bellissimo, e l’importante è che i riflettori restino accesi sul calcio femminile.»

Qual è il ricordo più bello che le ha lasciato la recente esperienza di bordocampista con la nazionale femminile?

«Ci sono tantissimi momenti indimenticabili, ma il più bello in assoluto è stata la qualificazione ai quarti di finale. Il nostro girone era difficilissimo: abbiamo superato il Belgio, sulla carta più forte, il Portogallo, in grande crescita, e la Spagna, praticamente imbattibile. Poi ci è toccata la Norvegia, una squadra che fino a pochi anni fa era impensabile battere, perché investe sul calcio femminile da vent’anni più di noi. Superare quei quarti è stato il momento più bello, seguito da una serata meravigliosa di festeggiamenti con le giocatrici e le mie colleghe.»

Ho notato che eravate molte colleghe in occasione della partita dei quarti di finale. Un caso?

«Siamo un gruppo di colleghe che segue il calcio femminile da tantissimi anni. In quella partita c’erano la coordinatrice giornalistica Annalisa Bartoli, la regista Anna Rita Cardinali, le telecroniste Tiziana Alla e Katia Serra, io come bordocampista e, al pitch, Simona Rolandi e Sara Gama. Non abbiamo mai pensato di dover essere per forza tutte donne, ma a posteriori è sembrata una vera e propria rivoluzione culturale.

Ci siamo rese conto che anche le arbitre erano donne e, tra il pubblico, c’erano tantissime donne, ragazze e bambine. Un altro cambiamento importante è stato vedere Sara Gama per la prima volta come opinionista, dopo il suo addio alla nazionale e alla Juventus. Sara è un volto fondamentale del calcio femminile e un punto di riferimento per il professionismo.»

In tutto questo universo al femminile come si pone il mister Andrea Soncin?

«Molti si sono accorti solo ora che il mister Andrea Soncin, emozionatissimo al mio microfono, ha parlato al femminile. In realtà, ha sempre usato il cosiddetto “femminile sovraesteso”.

Soncin sostiene di parlare al femminile per sentirsi parte della squadra, e lo trovo bellissimo. Il linguaggio è importante, e anche noi in Rai diamo molta attenzione a declinare i ruoli al femminile.

Non possiamo dimenticare la sua collaboratrice, Viviana Schiavi. È stata una giocatrice di altissimo livello, ha fatto tutta la gavetta e ha grande confidenza con le calciatrici della nazionale, con alcune delle quali ha giocato. Il suo ruolo di collegamento tra la squadra e il mister è un ingrediente davvero vincente.»

Fra le tante sportive che ha conosciuto ce n’è una che ha lasciato un ricordo indelebile?

«Sì. Quando giocavo in prima squadra, tra le mie compagne più grandi c’era Silvia Fiorini. Era una fiorentina, la mia vera idola. Portava la maglia numero dieci ed è stata una delle calciatrici italiane più forti, credo che detenga ancora oggi il record di gol ai Mondiali.

Qualche anno fa è stata colpita da un ictus e sta affrontando con una forza da vera sportiva le tante difficoltà che ne sono derivate.

All’epoca ero solo una ragazzina, ma ho imparato molto anche grazie a lei. Quando oggi festeggiamo il calcio femminile, il mio pensiero va sempre a Silvia. Credo che meriti davvero tutto il meglio possibile.»

Paola Giannò

Foto in alto: Sara Meini

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