“Il giorno di mezzo” di Paola Repetto è la nostra pillola di oggi. Un racconto toccante che sottolinea come la vita, a volte, si compia nella nostra inconsapevolezza.
Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.
IL GIORNO DI MEZZO di Paola Repetto
Per mia madre è stato il 18 agosto del 1980 alle 14 e 32, ma questo l’ho scoperto dopo.
Avevamo già finito di mangiare a quell’ora e probabilmente lei lavava i piatti perché non avevamo lavastoviglie nella casa di campagna. Era lì che passavamo le vacanze.
La casa di campagna era grande e non era mai finita. La cucina era un assemblaggio di pezzi spaiati e negli spazi tra uno e l’altro cadevano cibo, posate, tovaglioli, che si dovevano recuperare con lunghi cucchiai di legno dal manico sottile.
Io non aiutavo molto. Guardavo la vita dei miei genitori con distacco e pazienza. Mangiavo appena, sempre incalzata dalle loro insistenze.
Forse c’erano ancora gli avanzi del Ferragosto quel giorno. Il vitello tonnato c’era di sicuro. C’era sempre.
A Ferragosto i nonni paterni facevano i ravioli di ricotta e spinaci. Mangiavamo nella sala grande, sul tavolo con il vetro verde. Erano lunghi pranzi astiosi perché non c’era armonia e nonostante i sorrisi di circostanza, la conversazione non decollava. Ricordo osservazioni inutili, rumore di forchette, lamenti.
Il 18 agosto i nonni non c’erano, abbiamo mangiato presto e c’erano pochi piatti da lavare. Forse alle 14:00 mia madre si era già versata il caffè nella tazzina gialla ed era andata a goderselo in giardino, dietro la casa, insieme al sole tenero della campagna.
Quel giorno il vento era moderato e la temperatura era di 28 gradi. Non fu un anno particolarmente caldo, quello. Del resto, nessuna estate di quegli anni era calda come quelle di ora.
Lei voleva andare al mare, mio padre no: lui non sapeva nuotare. Così ci andavamo poco, una volta ogni due o tre anni. Il sole della campagna – diceva lei – non abbronza nello stesso modo.
Teneva una sottile collana d’oro alla vita ma odiava i segni del costume. Per questo prendeva il sole nuda. Il suo corpo bianco e rosa era un’arma e una saracinesca. Perché in realtà stava dicendo: «Io sono a casa mia e a casa mia sto come mi pare, e andate tutti affanculo.»
Dalla strada si vedeva poco il giardino, ma qualcosa si vedeva e, infatti, non si avvicinava mai nessuno. I nonni men che meno, ed era proprio quello che voleva. Stava sulla sdraio, con gli occhi chiusi a crogiolarsi come una lucertola, ascoltando le cicale frinire. Non c’era modo di non sentirle.
Io leggevo appollaiata sul mio melo. Di solito teneva nuda anche me, per abituarmi. Avevo 8 anni e mi facevo passare l’estate, e l’acqua, addosso.
Tutti i giorni andavamo al fiume. Era appena sotto casa, in fondo a una discesa stretta e ripida che al ritorno ti spezzava il fiato. Era una grande ansa sassosa dove l’acqua del torrente, ogni inverno, scavava una pozza diversa. Non so neanche adesso come si chiami il fiume – mi basterebbe cercare on line – ma non m’importa. Per me era solo il mio fiume, freddo e viscido. Lì ho imparato a saltare sui sassi e a distinguere le bisce dalle vipere alla prima occhiata. Nella vita serve sempre.
Forse quella mattina eravamo andate al fiume, io e lei, con l’asciugamano grande rosso e le carte da gioco per interminabili partite a scala quaranta. La odiavo quando si teneva tutte le carte in mano e poi le metteva giù in una volta e rideva dicendo: chiudo, chiudo, chiudo. Vinceva sempre lei.
Mi piacerebbe sapere che le ero accanto, quel giorno, come quando se n’è andata.
Mi piacerebbe essere certa che facesse l’amore la notte, mentre io dormivo.
Aveva 34 anni, 5 mesi e 11 giorni, nel suo giorno di mezzo.
Era bionda, con tanti capelli e la pelle del viso segnata da un’acne cattiva. Era una donna bella, testarda e borghese. Le importava quello che diceva la sua portinaia di Milano ma provava anche un perfido piacere nel sapere che parlasse male di lei.
Spero che non abbia pianto quel giorno. A volte lo faceva, con la testa sulla tavola, dopo cena. Io passavo e facevo finta di non accorgermene per non metterla in imbarazzo. I loro litigi erano nella lingua, per me incomprensibile, degli adulti. Col tempo mi è stato chiaro come tutto fosse un compromesso, un susseguirsi di piccoli sacrifici, un braccio di ferro costante tra slanci e doveri.
Forse nel momento esatto della svolta, quando ha imboccato la via della morte, ci ha pensato a come sarebbe stato andare via e l’ha presa una vaga tristezza.
Lei aveva una paura matta di morire. Almeno fino a quando non è stata vicina a farlo.
Dal giorno che l’abbiamo sepolta, il “giorno di mezzo” è diventato un pensiero fisso per me.
Perché c’è il momento esatto della metà della nostra vita e si può calcolare. Stai scavallando la cresta delle montagne russe più alte dove andrai mai e dovresti almeno sentire qualcosa prima di buttarti a capofitto verso la fine del giro. Almeno uno spillo nel cuore.
Quel giorno invece c’è un falco che vola sopra la casa, in grandi cerchi concentrici.
Lei dalla sdraio lo guarda con un occhio solo, strizzando l’altro forte e portando la mano a visiera sopra la fronte.
«Ha visto qualcosa.»
«Avrà visto una lepre», risponde mio padre da dietro il giornale, all’ombra.
«Non voglio che la prenda.»
«Non puoi farci niente.»
«Posso far scappare la lepre nel bosco.»
«Non puoi farci niente», ripete lui. «Anche i falchi devono mangiare.»
Mia madre si alza, si riveste almeno un po’, e inizia a camminare nel giardino a zig zag. Non c’è nessuna lepre in vista. Solo cicale e tafani e vespe. Il falchetto continua a girare sempre più stretto, sempre più basso.
Lei guarda in alto e poi, disperata, batte le mani per fare rumore.
Ed ecco che un leprotto ben nascosto sotto un cespuglio la sente arrivare e si spaventa e decide di scattare allo scoperto per raggiungere un altro riparo. È un attimo. Il falco scende in picchiata, lo afferra con gli artigli e se lo porta via. Sono le 14 e 32.
«Noo.»
Poi il pomeriggio va avanti. La radiolina a pile continua a trasmettere My Sharona, Blondie chiede insistentemente di essere chiamata e i Police lanciano un SOS in bottiglia.
Hanno avuto della bella musica quella estate, anche se a loro non importava.
«Metti la cassetta», chiede lei.
Mio padre va a prendere il mangianastri: un parallelepipedo grande come una scatola da scarpe. La canzone che sentivano sempre era I’ll never fall in love again. Torna con la musica che galleggia a mezz’aria come una farfalla nell’afa, e con la macchina fotografica.
34 anni, 5 mesi e 11 giorni dopo raccolgo le sue ultime cose dentro una borsa.
Dobbiamo liberare la stanza.
Ha deciso tutto da sola: il vestito da metterle nella bara, il legno, il marmo, la foto.
Ha detto che l’avrei trovata nella cartelletta. La apro e dentro c’è lei: guarda in macchina distratta, i capelli scivolano un po’ in davanti, c’è un bel blu sopra.
Giro la foto: 18 agosto 1980.
In alto: elaborazione grafica di Erna Corsi
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Paola Repetto è nata a Genova nel 1972. Laureata in Lettere Moderne alla Cattolica di Milano, vive a Firenze. Nella vita scrive di vino: lavora da oltre 20 anni in un’agenzia di comunicazione e pubbliche relazioni specializzata in enogastronomia. Ama ristrutturare vecchie case, pedalare piano e immaginare le vite degli altri.