Esiste un revisionismo storico che sembra negare l’evidenza: è giusto ricordare i fatti attraverso le parole di chi li ha vissuti.
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale che viene celebrata il 27 gennaio per commemorare le vittime dell’Olocausto. È un’occasione importante per chi non ha vissuto quel periodo per cercare di avvicinarsi ai racconti di chi c’era, per conoscere la storia da vicino e soprattutto per non dimenticare.
Durante la Seconda Guerra Mondiale le città italiane venivano bombardate frequentemente dal fuoco degli alleati. Le sirene avvisavano la popolazione con un anticipo spesso troppo risicato per potersi rifugiare per tempo nei rifugi o, come avveniva più spesso, nelle cantine. Per questo motivo, chi poteva, abbandonava la casa di città per trasferirsi nei piccoli paesi, fuori dal radar dei bombardieri: loro sono gli sfollati.
Abbiamo incontrato Nelda Andreoli nella sua casa a Verona. All’epoca del conflitto era solo una bambina ma ricorda molto bene quel periodo vissuto in casa d’altri con i genitori e la preoccupazione costante di non trovare più la propria casa in città.
Buongiorno Nelda, posso chiederle quanti anni aveva durante la Prima Guerra Mondiale?
«Io sono del ‘33 e la guerra l’ho vissuta dal ‘42 al ‘45, perciò dai nove ai dodici anni.»

Dove viveva la sua famiglia prima della guerra?
«Abitavamo a Porta Vescovo, una zona molto vicina al centro di Verona.»
Come mai avete deciso di trasferirvi fuori città? Immagino non sia semplice decidere di abbandonare la propria casa.
«Perché iniziavano i bombardamenti forti. Mi sembra fosse il ‘41 quando cadde la prima bomba vicino a casa. Eravamo a un passo dalla Caserma Santa Marta e dalla ferrovia, entrambi obiettivi militari. In più allora c’era anche il distretto militare dietro l’angolo. Mia mamma e mio papà erano terrorizzati per la mia incolumità. Hanno deciso quindi di spostarsi in un paese perché quelli non venivano bombardati.»
Dove siete andati?
«Ci siamo spostati a Illasi (n.d.r.: una frazione fuori dal Comune di Verona a circa 17 chilometri di distanza). La vita là era completamente diversa. A mia mamma mancava tanto la città. Non c’era nemmeno il bagno in casa, l’unico era in cortile, a disposizione di tutti. Con il procedere della guerra è stata razionata anche l’acqua: ne avevamo a disposizione due secchi al giorno per fare tutto. Mia mamma impazziva.
Sfidando i bombardamenti una volta alla settimana tornavamo a casa a Verona per lavarci. È successo qualche volta che suonasse la sirena antiaerea mentre eravamo alla casa in città e allora si scappava al rifugio qui vicino, scavato sotto le Torricelle (n.d.r.: le colline a ridosso del centro di Verona). Si passava dalla Ferramenta Grazioli. Per noi ragazzini era un diversivo, ricordo che si giocava anche lì sotto. Gli adulti invece erano preoccupati e spaventati. Via XX Settembre è stata bombardata spesso: a volte quando si usciva dal rifugio si trovava la strada piena di macerie e qualcuno scopriva di non avere più una casa.»
Cosa ricorda di più di quel periodo?
«Io ero una bambina e la spensieratezza di quell’età mi ha permesso di viverlo in modo diverso dagli adulti ma ricordo tutto molto bene, anche le tragedie. Ricordo benissimo Pippo: era l’aereo che sorvolava i centri abitati. Quando di notte vedeva una luce accesa sganciava una bomba. Ricordo i mitragliamenti contro il treno su cui viaggiavamo per tornare alla casa di città. Si scendeva tutti di corsa e ci si buttava nel fossato per ripararsi. Ricordo le restrizioni e la fame. Noi siamo stati fortunati: essendo una famiglia poco numerosa avevamo cibo a sufficienza ma per molti non era così. Ricordo la mancanza degli uomini. Mio papà era avanti con gli anni e non è stato arruolato ma mancavano i figli, i mariti, i fidanzati.
Non si sapeva dove fossero e se fossero vivi. Dopo l’8 settembre poi molti di loro si unirono ai partigiani, sulle colline. Ricordo benissimo un ragazzo che era tornato a trovare i genitori che abitavano vicino a me: proprio in quel momento è passata una pattuglia di tedeschi. Tutti hanno aiutato a nasconderlo nel granaio, sotto le fascine accatastate. Per fortuna non è successo niente, ma mi è rimasta la paura di quelle divise. Mi spaventavano anche se personalmente non mi avevano fatto nulla. Una volta ho incontrato un ufficiale delle SS, con quel soprabito di pelle nera e il frustino. Ho avuto tanta paura, anche se ancora oggi non so dire il perché.»
Come vi procuravate le provviste?
«Era tutto razionato. Si cercavano mele e castagne selvatiche e magari anche le olive rimaste a terra dopo la raccolta. C’era una signora fuori dal paese che aveva una capra e si andava da lei a prendere il latte. Ancora oggi mi chiedo come facesse ad accontentare tutti. Ricordo che dopo la caduta di Mussolini le guardie erano scappate e il deposito del grano era rimasto incustodito. Tutti erano accorsi a prenderne il più possibile. C’era una scia di chicchi di grano lungo tutte le strade che portavano al deposito: ognuno andava con ciò che aveva, sacchi, carriole, contenitori di fortuna e nella foga di correre a casa molto del bottino rimaneva a terra.»
Quando siete tornati a casa vostra?
«Era il 25 aprile, lo ricordo benissimo perché quella notte avevano fatto saltare i ponti, tutti, dividendo in due la città (n.d.r.: furono i tedeschi che si ritiravano). L’orizzonte era rosso fuoco per le esplosioni e gli incendi. È stata una ferita intima per i veronesi. Un paio di giorni dopo sono arrivati gli americani a raccogliere i tedeschi rimasti. Non erano SS, erano ragazzi felici di tornare a casa, come i nostri. »
Che cosa avete trovato? La casa era ancora in piedi, era tutto a posto?
«Siamo stati fortunati, la nostra casa non ha subito danni, ma nella nostra via erano molti i palazzi crollati. E così in tutta la città.»
È rimasta in contatto con le persone che vi hanno ospitati?
«Certo, sempre da allora, siamo rimasti molto amici. Grazie a loro conservo anche ricordi belli di quel periodo. Noi vivevamo con un signore che era il padrone di casa. Eravamo affacciati su un cortile dove ci si conosceva tutti. Si stava tutti insieme, si condivideva il poco che c’era.»
Come si viveva dopo la fine della guerra?
«Prima di tutto era necessario ricostruire la città e la società. I posti di lavoro li avevano presi le donne durante l’assenza degli uomini che erano in guerra, o prigionieri o partigiani. Lavoravano tanto le donne: in campagna, con i figli che erano sempre tanti e anche in casa. C’era tanta miseria, mettere in tavola pranzo e cena ogni giorno era difficile. Ho imparato a non buttare niente. Gli avanzi li conservo per il giorno dopo, sprecare il cibo mi sembra ancora un affronto. Oggi forse stiamo troppo bene per capirlo. La guerra è brutta da tutte e due le parti, è un’assurdità madornale, è la stupidità dell’umanità.»
Il Giorno della Memoria ci avvicina a quella storia recente che non si studia sui libri. Oggi come allora la guerra non è fatta di confini o macrosistemi ma di persone, sangue, dolore e miseria.
Erna Corsi
Foto in alto: bombardamento a Verona, 1944 – da https://historicalegio.blogspot.com/
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La mia mamma era del 1928.
Lei viveva in campagna ma questo racconto è sovrapponibile a quanto raccontava lei.
Inoltre sosteneva che i contadini erano fortunati perché i campi offrivano cibo come pure gli animali da stalla e da cortile.
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