Sul set tutto è finalizzato a trasmettere emozioni forti agli spettatori, ma spesso è chi recita a provare quelle più intense.
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Fare l’attrice è un sogno. Certo non per tutte, ma è difficile rimanere impassibili davanti al fascino del mondo del cinema: il set, i costumi, le première, la fama e la ricchezza. Ma è davvero tutto qui? Quanto costa immedesimarsi in un ruolo? Alcuni attori si sono rasati i capelli, hanno aumentato il loro peso o si sono spinti fino a una magrezza pericolosa per la salute per potersi calare nei panni del loro personaggio ed essere credibili. Qualcuno ha vissuto in condizioni estreme per un periodo prima del ciak di inizio o ha evitato qualsiasi contatto con gli altri membri della troupe durante le riprese per aumentare la sua alterigia.
Ma come ci si prepara alla scena di uno stupro o della fuga da un pazzo assassino? Immagino sia complicato rendere vivida quell’esperienza sullo schermo senza averla vissuta davvero in prima persona. A volte, purtroppo, è ancora più complicato lasciarle andare dopo averle interpretate. È quello che è accaduto ad alcune attrici, rimaste impigliate nel loro personaggio o nella rete delle azioni che hanno vissuto.
Shining, Shirley Duvall
Shelley Duvall, durante la sua partecipazione al programma televisivo Dr.Phil, condotto dallo psicologo Phil McGraw, ha parlato del trauma che ha subito interpretando Wendy Torrance in The Shining (1980), diretto da Stanley Kubrick. Era il 2016 ed erano passati trentasei anni dall’uscita della pellicola nelle sale. La sua assenza dai set per molti anni ha alimentato la leggenda che fossero stati i metodi crudeli del regista a spingerla nel baratro. In seguito l’attrice ha più volte ribadito che i suoi problemi mentali si sono acutizzati durante le riprese, ma a causa dello stress lavorativo e della lontananza dai suoi cari. Recentemente ha rilasciato un’intervista a The Hollywood Reporter in cui afferma: «Mi svegliavo e quando mi rendevo conto che avrei dovuto ricominciare a piangere per tutto il giorno entravo nel panico. Non so proprio come ho fatto a farcela.»
Dogville, Nicole Kidman
Dogville (2003) è un film d’avanguardia di Lars Von Trier. La protagonista, Grace, è interpretata da Nicole Kidman che ne fa un capolavoro. Una ragazza viene accolta nella comunità chiusa di un paesino sperduto e per ringraziare i quindici abitanti la giovane si adopera per aiutare tutti al meglio delle sue capacità. Progressivamente le richieste si fanno sempre più pressanti e le incombenze più umilianti. Il genio visionario di Von Trier porta sullo schermo una composizione teatrale dove non c’è nulla di realistico tranne la bassezza dell’animo umano. Alla fine delle riprese Kidman affermò di esserne uscita molto turbata e dichiarò che non avrebbe mai più lavorato con quel regista.
Ultimo tango a Parigi, Maria Schneider
Nel 1972 la pellicola di Ultimo tango a Parigi, appena terminata da Bernardo Bertolucci, venne sequestrata dalle forze dell’ordine per «esasperato pansessualismo fine a se stesso». Il processo durò fino al 1976 quando la pellicola venne condannata alla distruzione e i produttori a due mesi di prigione. Per il regista ci fu una sentenza definitiva per offesa al comune senso del pudore. Salvato fortunosamente e proiettato per la prima volta nel 1982 e definitivamente assolto nel 1987, Ultimo tango a Parigi è entrato a far parte dell’immaginario collettivo grazie anche e soprattutto alla scena che più di tutte aveva sollevato le ire della censura.
I personaggi principali furono interpretati da Marlon Brando e Maria Schneider, che all’epoca delle riprese aveva solo vent’anni. Nella sceneggiatura era prevista una scena di violenza sessuale, ma nessuno aveva specificato alla giovane attrice come si sarebbe svolta. Venne presa alla sprovvista davanti alle telecamere accese senza avere modo di opporsi o difendersi. Anni dopo dichiarò in un’intervista che si sentì «quasi violentata», il che era purtroppo vero per i parametri dell’epoca. Le emozioni però non seguono di pari passo la legislatura e una donna che si sente violata lo è effettivamente. Il forte choc subito e l’umiliazione per il ruolo che le era stato cucito addosso suo malgrado la portarono alla tossicodipendenza e a un tentativo di suicidio nel 1979.
Questi sono solo alcuni esempi di come possa essere pesante e logorante il mestiere dell’attrice. Pare quindi lecito chiedersi fino a che punto valga la pena immolarsi nel nome della settima arte. Io credo che l’unico limite sia quello che noi stessi ci poniamo. Esiste una profonda differenza fra l’esperienza di Shelley Duvall e Nicole Kidman rispetto a quanto è accaduto sul set a Maria Schneider: le prime due hanno scelto di andare oltre consapevoli di ciò a cui andavano incontro. La terza invece ha subito la decisione di altri senza poter nemmeno obbiettare, pagandone pesantemente le conseguenze in prima persona. Sul set come nella vita di tutti i giorni il rispetto e il libero arbitrio che devono essere valori imprescindibili.
Erna Corsi
Foto in alto: Nicole Kidman in Dogville – foto da archdaily.com
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