La pillola di oggi è il racconto di Rosalba Risaliti Ammazzare il tempo. Un viaggio tra generazioni e significati nascosti.
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AMMAZZARE IL TEMPO di Rosalba Risaliti
Quando venne ad abitare in città con noi sentì il bisogno di avere la carta d’identità. La accompagnai dal fotografo, la fototessera le piacque così tanto che la tenne da parte per il cimitero. Un vecchio album mi ha restituito lo sguardo fiero di nonna Iole con il vestito buono, i capelli raccolti e gli orecchini che si metteva solo ai matrimoni. Aveva sessantacinque anni, io li ho appena compiuti.
Quando stava al paese la vedevo solo d’estate e durante le vacanze di Natale, papà e mamma mi lasciavano da lei con la raccomandazione di studiare e fare i compiti delle vacanze. Avevamo fatto un patto: io non combinavo guai e lei non mi controllava, era troppo impegnata con le faccende di casa, con l’orto e con il lavoro.
Al paese il lavoro era una cosa seria. D’estate le donne si incontravano prima di cena, sceglievano le zone più fresche fuori dal cortile, e accomodavano le loro sedie distanti dai muri. D’inverno sbrigavano in fretta le faccende e andavano a sedersi sotto casa degli Spadafora. Arrivavano quasi di corsa che il sole sarebbe tramontato presto. In ciabatte o strette negli scialli, si sedevano in circolo: da una parte le vecchie vestite di nero con le mani gonfie, dall’altra le spose giovani con il grembiule sopra il vestito da casa. Le bimbe delle case di sotto sbucavano all’improvviso, sudicie in faccia e nei vestiti, ma con le mani pulite per non sporcare la lana. Si davano da fare con i gomitoli vecchi e i ferri spaiati che le donne tenevano da parte per loro.
Quando non riuscivano ad andare avanti con i punti, saltavano da una donna all’altra alla ricerca di una maestra. Tra le spose e le bimbe c’ero anche io, lenta e distratta, con le dita insicure. Mi incantavo a studiare le mani delle altre che guidavano i ferri senza guardare, il filo lanciato tra un ferro e l’altro, i gomitoli che rotolavano veloci dentro le ceste appoggiate a terra.
Il lavoro a maglia aveva il potere magico di sciogliere la lingua delle donne: le stesse che a mani vuote se ne stavano sempre zitte, con i ferri in mano parlottavano di tutto, tra una parola e l’altra ci scappava anche qualche risatina, ma il motivo non riuscivo mai a capirlo. Parlavano in dialetto stretto, credevo che lo facessero per non farsi capire da me, di certo non lo facevano per le bimbe delle case di sotto. «Quelle sono piene di malizia e a casa ne vedono di tutti i colori» diceva nonna Iole.
Nonna era una specie di capitana delle magliaie: organizzava i lavori “per fuori” delle più brave, quelle capaci di confezionare golf, sciarpe e cappelli fatti così bene che si potevano vendere. Aiutava le meno brave con una pazienza infinita. Quando c’erano maglie vecchie da sfare, matasse da lavare e da stendere tra gli schienali delle sedie era lei che dava ordini alle bimbe. Tutte, anche le più scostumate la guardavano con rispetto. Quando una di loro riusciva a imparare qualche punto complicato nonna Iole si fregava le mani e indossava il suo sorriso migliore. «Non si campa i solu pani», le sentii dire mentre guardava una delle bimbe passarsi il ferro tra i capelli come le aveva insegnato lei.
Quando si trasferì in città aveva ancora tanta voglia di lavorare. Mamma e papà dicevano che non ne aveva più bisogno, la pensione che le avevano riconosciuto era più che sufficiente, e poi c’erano i loro stipendi, ma lei non ne voleva sapere. Nella sua testa la città doveva somigliare al paese, solo più in grande. I primi tempi portava la sedia e il lavoro a maglia nel cortile del condominio, convinta che sarebbe riuscita a organizzare un gruppetto di spose giovani o, alla peggio, di bimbe. Non si presentò nessuna: le giovani compravano i vestiti ai grandi magazzini e le bimbe preferivano giocare con i pattini o con la palla contro il muro.
Passavamo lunghi pomeriggi a casa, io a studiare con fatica e tenacia, piena d’invidia per chi riusciva a capire prima di me, lei con alle prese con l’uncinetto. Aveva a disposizione tempo, spazio e gomitoli di cotone di tutti i colori. In pochi anni riempì la casa di centrini, puntaspilli, presine, paralumi e custodie per i rotoli di carta igienica. Quando cominciò ad avere problemi di vista mamma le fece fare un paio di occhiali, la montatura dorata le si impigliava tra i capelli, attraverso le lenti il suo sguardo sembrava ogni giorno più liquido. Una volta che le feci i complimenti per quanto era brava mi confessò che l’uncinetto non era cosa per lei, e che i centrini e le altre stupidaggini erano lavori fatti per ammazzare il tempo: non servivano a nessuno e non valevano niente. «Mmazzari u tempu è ’na cosa chei nanz’avi a fari», disse, e aggiunse che se l’avessero vista le donne del paese l’avrebbero presa in giro. Eppure continuava imperterrita, il lavoro solitario era sempre meglio di niente.
Anche io faccio fatica a separarmi dal lavoro. Dopo aver vinto la lotta con i libri ho continuato a impegnarmi a testa bassa. Il computer mi segue sempre, da sempre. Il primo lo avevo usato così tanto da scolorire la tastiera, ho scritta la tesi di dottorato indovinando i tasti, con le dita emozionate per i risultati della ricerca che sentivo mia. Mi ha accompagnato per anni fino a quando l’ho chiuso con un pugno, in una notte di lavoro e delusione. Poi l’entusiasmo si è fatto da parte, e le mie dita senza più emozione hanno continuato a battere sui tasti di portatili sempre più potenti, sempre più leggeri. Oltre gli schermi ho visto i miei figli crescere, mia madre diventare vecchia, lo sguardo di Andrea farsi duro e distante. Il computer di turno mi ha seguito nei convegni pieni di gente distratta, quando ascoltavo interventi senza senso, immaginando che i miei fossero migliori. Ho passato intere vacanze a scrivere progetti che non si sono realizzati, ho revisionato centinaia di lavori letti da poche persone, ho impostato calcoli complessi per elaborare indici che immaginavo geniali. Chissà che fine hanno fatto.
Ieri, dopo un’attesa interminabile, ho raggiunto il punto più alto della carriera. Mi guardo indietro e vedo anni di inutile affaccendamento, e occhiali, tante paia di occhiali. Gli ultimi che ho comprato hanno la montatura d’oro come quella di nonna, le lenti antiriflesso funzionano benissimo, così posso passare ore e ore davanti al computer senza stancarmi gli occhi. E continuare a mmazzari u tempu.
Rosalba Risaliti
In alto: elaborazione grafica di Erna Corsi
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Rosalba Risaliti è un’agronoma prestata alla chimica analitica lavora in un Centro di ricerche dell’Università di Pisa. Lettrice appassionata, fa parte del laboratorio permanente di scrittura QWERTY: un gruppo di persone che si incontrano settimanalmente per scrivere, leggere, criticare e discutere su quello che hanno scritto. Ha pubblicato una ventina di racconti. Coltiva una passione tardiva per il nuoto agonistico.