Con piacere pubblichiamo Tra le calle bianche, racconto con il quale Agnese Rombolà ha partecipato alla nostra prima call del 2025 che ha come tema “Abbagli”.
Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.
TRA LE CALLE BIACHE di Agnese Rombolà
Sbam
Sento la porta del piano di sotto sbattere.
«È il vento», penso tra me e me.
Sbam
Di nuovo.
«Papà dimentica sempre qualche finestra aperta, è davvero irrecuperabile», sospiro e vado in soggiorno per vedere se c’è qualcuno che possa scendere al piano di sotto al posto mio.
Sono sola, devono essere usciti tutti. Ma sto lavorando, quindi mi convinco che posso scendere più tardi.
Sbam sbam sbam
Ancora più forte, la porta sbatte più volte, quasi come se fosse qualcuno a spingerla così violentemente, quasi per dispetto.
Sento un brivido percorrermi tutta la schiena e arrivarmi fino a dietro la nuca, una sensazione strana, un sesto senso che se ascoltassero le protagoniste dei film horror potrebbero evitarsi tante macabre disavventure.
Ma, allo stesso tempo, la curiosità di scoprire cosa sia quello strano rumore, per quanto sottile rispetto alla sensazione precedente, si fa strada tra le mie sinapsi. Non riesco a restare indifferente.
Un lungo sospiro, mi tocca scendere. Metto in standby il computer, indosso le ciabatte e scendo le scale, ancora con quella sensazione strana che sembra seguirmi.
Apro la porta del garage, percorro il corridoio e mi ritrovo di fronte la porta di legno della vecchia camera da letto della nonna, ormai ristrutturata.
Non sento nulla, mi sento anche un po’ tonta a essermi fatta assecondare dalla curiosità.
Controllo la finestra, è chiusa.
Faccio spallucce e sto per andarmene, quando di nuovo…
Sbam
Sobbalzo per la paura, ma capisco finalmente da dove proviene il rumore. È la porta della cucina della nonna, rimasta intatta e che ancora dà sul piccolo orto.
«Strano, è da tanto che non ci va nessuno» penso e mi accingo a controllare.
La porta è semi aperta, da dentro una luce soffusa e un profumo strano, familiare, ma ancora lontano per poterlo identificare.
Sento di nuovo quel brivido e ancora con esso la curiosità di proseguire.
Entro, attraversando la porta bianca, ma mi ritrovo di fronte una scena peculiare.
La cucina non è più come la ricordavo in questi giorni, abbandonata, cupa e fredda.
Al contrario, una luce soffusa è ora sparsa in tutta la stanza.
Scorgo sui fornelli l’origine di quel familiare profumo, ora divenuto inconfondibile.
Sugo che ribolle a fiamma lenta in una pentola in terracotta, galleggiando in compagnia di buon olio e qualche foglia di basilico, aggiunta da mani esperte.
Un profumo che non può che riportarmi a un’unica persona.
Eppure, lì continuavo ad essere sola.
Giro per la stanza incredula e penso, nell’assoluta onestà e razionalità intellettuale, di essere pazza. Forse lo stress mi stava giocando un brutto scherzo, me lo aveva detto la mamma di rallentare un po’ con il lavoro.
Mi do un pizzicotto, forse sto sognando.
«Ahi», mi sento dire a bassa voce, con una smorfia di dolore.
Sembra essere stranamente tutto vero. Mi fermo sui dettagli per capire cosa stia succedendo e mi accorgo di un particolare interessante, sul tavolo perfettamente stirato un centrino ricamato e su di esso adagiato un vaso trasparente a me familiare con cinque meravigliose calle bianche.
Mi avvicino per catturarne il buon profumo, quando alle mie spalle sento «sono le mie preferite, lo sai bene.»
… Mi volto e incredula la vedo. È proprio lei, con il suo grembiule con i fiorellini e il cerchietto nero tra i capelli. La fisso sbigottita, non riesco a dire nulla e non capisco se ho paura o sono felice di quella visione, nonostante sia abbastanza sicura sia solo un abbaglio. Del resto, da buon Capricorno, non riesco a non smettere di dare adito alla mia ragione, altrimenti se così non facessi perderei seriamente il lume.
Mantengo dunque la calma, deglutisco e le chiedo solo «perché?» Esce dalla mia bocca probabilmente la cosa meno adatta che potessi chiedere.
Lei mi sorride, si siede nella sua solita panchina in legno e aprendo il grembiule a mo’ di cestino come era solita fare, inizia a sbucciare delle patate. «Sono tante, vero? Quando finiranno, capirai perché. Ora siediti vicino a me e aiutami, iatu du cori mio.»
Una lacrima mi riga il volto, penso di essere ormai fuori dai binari della lucidità, ma mi siedo e inizio a pelarle con lei, tonde e dorate che ancora odorano di campagna, di casa.
«Ti ricordi cosa ti dicevo sempre? La cucina è fantasia. Tutto quello che devi metterci è solo l’amore, il resto lo capisci facendolo. Oggi, cara mia, devi fare lo stesso, devi metterci solo il tuo buon cuore e crederci.»
«Se lo faccio, potrei non riuscire a ritornare indietro», ribatto con voce tremolante.
«Se ti trovi di fronte una crostata alla marmellata, hai paura di provarla solo perché può finire?»
«No, la proverei e basta», rispondo senza pensarci troppo.
«Questo è quello che voglio spiegarti, mangia la crostata e goditi il suo sapore, quando finirà anche se non potessi più rifarla o assaggiarla, potrai sempre conservare il ricordo di quanto fosse buona.» Poi, senza darmi la possibilità di ribattere, aggiunge «hai finito con la tua parte?»
«Sì, anche tu sembri aver finito.»
«Sì, sembra proprio che il mio lavoro sia finito e io debba andare. Ci pensi tu al sugo quando sarò via?»
«Non andare nonna… Ti prego, non andare.» I miei occhiali sono ormai appannati dalle lacrime che una dietro l’altra sgorgano impetuose. «Non sono neanche brava in cucina», ammetto ridendo.
Lei ride, mi accarezza il viso. Sento quel brivido lungo la schiena, noto preoccupazione sul suo volto.
«Sai perché sono qui?»
«No, sto impazzendo?»
Ride di nuovo. «No, gioia mia. Non stai impazzendo. Sono qui perché ne avevi bisogno, perché tu, testarda e caparbia, accettassi che chi se ne va via non lo farà mai davvero. Che non è una frase fatta, ma è la verità. Cosa hai sentito appena entrata in cucina?»
«Il profumo del sugo», rispondo a bassa voce.
«Esatto. E cosa hai notato sul tavolo laggiù?»
«Le calle bianche», rispondo guardandole di nuovo.
«Proprio così. Il sugo, così come le calle, rappresentano i ricordi ma anche la vicinanza. Ogni volta che farai un buon sugo, io sarò lì. Ogni volta che rivedrai una calla, che la comprerai o che la porterai da me, io sarò lì. Sarò sempre al tuo fianco, devi solo ricordarlo.»
Mi accarezza con amore, con la stessa dolcezza delle sue parole. Chiudo gli occhi per fermare quel momento, per non permettere alle mie fibre nervose di dimenticare quella sensazione tanto mancata.
«Ricordalo anche a tuo padre. Ricordalo a chi sta soffrendo, Agnese. Vivete anche per noi.»
Apro gli occhi, la stanza è tornata buia, non c’è più nulla.
Sento la porta aprirsi alle spalle, è papà. «Che ci fai qui? Ti ho cercata dappertutto.»
«Aspettavo qualcuno.»
Lui mi guarda un po’ sospetto, poi ridendo mi chiede «e lo hai trovato?»
Mi alzo dalla piccola panchina in legno e mi avvicino al tavolo, una calla bianca sopravvive a quel sogno.
«L’hai portata tu qui?»
«No, non scendo da un po’. Sarà stata la mamma»
«Oppure la nonna.»
Mi guarda perplesso. «Forse hai lavorato troppo in questi giorni.»
«Sì, possibile. Forse un abbaglio, il più bello della mia vita.»
Agnese Rombolà
In alto: elaborazione grafica di Erna Corsi
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Agnese Rombolà è una giovane calabrese di 29 anni, emigrata a Bologna a 18 anni per lo studio e poi rimasta qui per lavoro e per amore. Ma per quanto Bologna abbia conquistato anni fa il suo cuore, la sua anima è ancorata alla sua terra natia, la sua casa, le sue radici. Ad oggi è una fiera dipendente pubblica, ma con il segreto (forse non troppo segreto) desiderio di diventare una scrittrice.
Favoloso e istruttivo, per chi crede nell’aldilà.
Ornella de Nardo Gianno’