La voce è uno strumento prezioso e lavorarci è un sogno per molti

Ester Parrulli - l'altro femminile - donne oltre il consueto
Ester Parrulli ci racconta la sua esperienza per entrare dove nasce la magia del doppiaggio e delle registrazioni di audiolibri.

Dal quinto numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, scarica il PDF della rivista o sfogliala online.

Ester Parrulli inizia da piccola a studiare teatro, innamorandosi della possibilità di emozionare il pubblico con la voce. Anni di studio e dedizione la portano a farsi conoscere nel mondo del doppiaggio, dove lavora tutt’ora. In questa intervista ci racconta che cosa si cela dietro le quinte della magia che noi attiviamo pigiando i tasti di un telecomando.

Buongiorno Ester, vorrei iniziare entrando nello specifico del suo lavoro per far capire a tutti esattamente di che cosa si tratta. Ce lo può raccontare?

«Da qualche anno sono entrata nel mondo del doppiaggio. Ha presente la versione in italiano di cartoni, film e telefilm stranieri? Ecco, quello è il doppiaggio! Un processo che si svolge in una sala al buio, in cui ti fai carico di riportare in italiano le emozioni che un attore ha precedentemente espresso quando è stato registrato un film, una serie tv o un documentario. Si tratta di comprendere quello che è stato un lavoro lungo mesi, e di tradurlo nel minor tempo possibile.

Perché se un attore ha giorni, settimane per creare il suo personaggio, studiarne le sfaccettature e incarnarne le sfumature, un doppiatore invece ha solo il tempo di vedere la scena (magari più volte, se i tempi della lavorazione lo permettono) per poter restituire la verità di quel che è stato fatto dall’attore in originale, nel modo più fedele e coinvolgente possibile, usando solo e soltanto la propria voce. È l’unico mezzo espressivo a cui può aggrapparsi un doppiatore, è la modulazione e il modo in cui ne traspaiono le emozioni a determinare l’efficacia di un doppiaggio.»

A quali progetti ha lavorato recentemente?

«Ho doppiato cartoni animati e qualche serie tv come ad esempio Drama Club e Tina & Tony, poi alcuni film sulle piattaforme digitali. Recentemente ho lavorato molto nel mondo degli audiolibri, un settore che sta iniziando a prendere piede. Ho iniziato registrando Fiorire d’inverno di Nadia Toffa; i libri più recenti su cui potete ascoltare la mia voce sono La paziente silenziosa di Alex Michaelides e Noi i cattivi di Amanda Foody e C.L. Herman. Purtroppo la lettura per la registrazione è una lavorazione che viene molto sottovalutata e poco valorizzata, con tempi di produzione strettissimi e conseguentemente poca cura dei dettagli.»

Che scuole ha frequentato e come si è specializzata per fare questo mestiere?

«Ho cominciato a studiare teatro fin da piccola, per combattere la timidezza, cosa che ha funzionato fino a un certo punto ma che mi ha fatto scoprire l’amore per la recitazione. Anziché stare sul palco avrei preferito dire le battute da dietro le quinte. Complice una folle passione per i cartoni animati e soprattutto per il mondo di voci che vi stava dietro, ho deciso in seguito di approcciarmi al mondo del doppiaggio, frequentando un’accademia di due anni con due doppiatori di Roma.

Poi, non sentendomi ancora pronta ad affrontare il lavoro e volendo maturare a livello artistico, ho deciso di riprendere teatro, diplomandomi presso una scuola triennale di Firenze. Nel mentre ho iniziato a frequentare qualche sala di registrazione. Ho avuto la fortuna di poter assistere a dei turni di doppiaggio e ho cercato di imparare direttamente dai professionisti che potevo osservare da vicino. Poi, da un provino, è iniziata la mia avventura.»

Ricorda la sua prima volta?

«Ricordo ancora perfettamente il mio primo turno di lavoro, l’emozione e il panico di quella prima volta. Ero insieme ad altri doppiatori che, è ovvio, avevano più esperienza di me, e io non riuscivo a sentirmi adeguata. Loro erano le voci che io riconoscevo alla tv… e io? Io non avevo mai doppiato professionalmente prima di quel momento. Però ricordo che mi sono divertita tanto!

Comunque il turno che mi ha segnata più di tutti è stato il terzo che ho fatto, sempre con lo stesso direttore di doppiaggio, che azzardò la follia di farmi fare un provino per la parte della protagonista di Disconnected – la vita in un click, un film tv di MTV. Incredibilmente, lo vinsi. Ero ancora acerba e assolutamente inesperta, ma il direttore fece di tutto per tirar fuori il meglio che potevo dare in quell’occasione.

Per quanto io possa essere cresciuta, per quanti anni possano essere passati mi sento sempre come la prima volta di fronte al microfono: un po’ impacciata, ma soprattutto molto emozionata. Ma quello a cui penso, in quel momento, è divertirmi e lasciarmi andare, affidarmi e farmi guidare da chi mi dirige per arrivare a un risultato che sia il più autentico ed efficace possibile.»

Come si arriva a introdursi in questo ambiente?

«Con pazienza, dedizione e passione, ma soprattutto rispetto. Si comincia assistendo, cercando di rubare il lavoro con gli occhi e soprattutto con le orecchie. Si cercano occasioni per mettersi alla prova, per farsi sentire dai direttori di doppiaggio che, nel caso, poi ti permetteranno di cominciare a lavorare. Solitamente si inizia con turni di brusio, che in gergo sarebbero quei turni di piccoli personaggi che fanno da sfondo ai personaggi principali, come per esempio il chiacchiericcio in un bar di sottofondo al dialogo tra due protagonisti.

E poi ci vuole costanza nel frequentare in modo assiduo le sale e farsi ricordare, sperando così, a piccoli passi, di poter lavorare. Ognuno poi ha il suo percorso, che non è mai uguale a quello di nessun’altro. È una strada molto personale, fatta anche di occasioni e di possibilità che a volte capitano, a volte vanno create.»

Come si riesce a mantenere contatti e ingaggi?

«Per il doppiaggio non esistono agenzie, per cui sta alla persona procacciarsi il lavoro, i contatti. Diciamo che in questo periodo storico le cose sono un po’ cambiate, la pandemia da Covid ha modificato quella che era la prassi. Prima era piuttosto facile girare per le sale, incontrare altri doppiatori e direttori, farsi conoscere e farsi ricordare, cosa altrettanto fondamentale. Adesso è più complicato, anche se non impossibile. I social, da questo punto di vista, possono dare una mano.»

È un lavoro che permette di mantenersi autonomamente pur non essendo continuativo?

«È un lavoro a chiamata e come tale… oggi lavori, domani è un punto interrogativo. Poi è chiaro che questo dipende anche da quanto sei riuscito a inserirti nel mondo professionale del doppiaggio. Io personalmente non posso dire di poter vivere di questo, perciò mi sono sempre arrangiata a fare altro, faccio quel che posso per potermi costruire un futuro. Oltretutto ammetto che mi piace cimentarmi anche in altri lavori, specialmente a contatto con il pubblico, anche se spesso è faticoso.

Ho sempre voluto potermi permettere di continuare a inseguire il mio sogno e tutti gli altri lavori che ho fatto fino ad ora me lo hanno concesso. Non sento di potermi definire una vera doppiatrice, ma una persona un po’ privilegiata sì! Perché nel mio piccolo ho potuto far parte di questo incredibile e meraviglioso mondo, troppo spesso sottovalutato; ho ricordi bellissimi e la soddisfazione di aver conosciuto e di aver lavorato con persone che da piccola sognavo soltanto, emozionandomi sentendo le loro voci al cinema o in tv.»

Come influiscono sulla sua vita privata gli spostamenti e il lavoro a chiamata?

«Mi sono sempre spostata molto per il doppiaggio. Quando ho cominciato a lavorare a Milano vivevo a Firenze, poi ho deciso di trasferirmi a Roma, cambiando completamente ambiente, ma continuando per il primo anno a lavorare a Milano, dove poi sono tornata in pianta stabile per alcuni anni. Il problema è che con Milano non è scattata la scintilla, forse complice anche il periodo del Covid, per cui per quanto mi piacesse come città, ho deciso di tornare nella mia Firenze.

È stata una mia scelta e me ne sono assunta le responsabilità. Sicuramente mi sono complicata la vita ma tutto sommato non mi pesa spostarmi quando ho dei turni di doppiaggio, perché lo faccio per passione e per amore di un lavoro che adoro. Certo, mi chiedo sempre se e per quanto potrò mantenere questi ritmi che di certo non sono leggeri, soprattutto quando c’è una mole maggiore di lavoro a Milano, lavorando al contempo a Firenze e gestendo gli affetti della vita privata. Non è facile, ma finché ho le energie per farlo, perché rinunciare? Oltretutto ho la fortuna di essere supportata dalle persone che amo, il che rende tutto un po’ più semplice nonostante la fatica.»

La retribuzione è adeguata all’impegno e all’intrinseca precarietà che implica il tipo di lavoro?

«Questa è una domanda molto interessante e molto delicata in questo momento in particolare, perché in effetti il mondo del doppiaggio è stato in sciopero proprio per questioni inerenti paga e contratto nazionale, scaduto da anni e mai rinnovato, soprattutto non adeguato ai tempi. Di per sé non sarebbe un lavoro poco retribuito, perché comunque un turno di tre ore di doppiaggio permette di guadagnare più di un turno di lavoro di tre ore in un negozio o in un bar, ma questo si potrebbe dire che vale per qualsiasi lavoro a partita iva per cui si paga la chiamata.

Di sicuro è vero che un contratto di lavoro fisso ti permette di avere delle certezze economiche in più (non sempre, purtroppo, visti i tempi… ma diciamo che di buona norma dovrebbe essere così). Invece, quando lavori a chiamata è chiaro che di sicurezze ne hai meno. Inoltre i ritmi di produzione sono aumentati parecchio, perciò si richiede molto a un doppiatore, che si ritrova quasi a dover eguagliare una macchina in velocità e precisione, perdendo un po’ anche quello che è il lato più bello del lavoro, togliendoti la possibilità di andare alla ricerca di sfumature che rendono più autentica e sincera la prestazione, per portare a casa il risultato nel minor tempo possibile. Per questo, probabilmente, è un lavoro che andrebbe valorizzato di più. Anche se forse, più che un maggior guadagno, sarebbe augurabile avere delle migliori condizioni di lavoro.»

Nel mondo degli attori negli ultimi anni si è parlato molto della disparità retributiva tra uomini e donne: nel suo ambiente si avverte questa differenza?

«Da questo punto di vista il mondo del doppiaggio è privilegiato, perché non c’è nessuna disparità di genere. Pur essendo il contratto nazionale scaduto, al momento gli studi di doppiaggio si attengono a quello. Viene pagato il turno di lavoro e la quantità di righe che vengono fatte all’interno di questo, che tu sia uomo o donna.»

Quali sono le soddisfazioni e le motivazioni che la spingono a continuare?

«Semplicemente la mia passione per questo lavoro. Diciamo che rispetto a qualche anno fa ho mollato un po’ la presa, ho smesso di investire su me stessa e mi sto godendo la rendita di quello che ho seminato negli anni. E va bene così. Mi ero sempre detta che se fossi riuscita a diventare una doppiatrice professionista sarebbe stato un sogno, ma che se non ci fossi riuscita, non mi sarei sentita sconfitta. Anche solo per averci provato, per aver assaporato la sensazione che solo stando al buio davanti al leggio puoi provare. In fondo già avere la fortuna di aver lavorato con direttori di cui ho sempre avuto stima è un risultato di cui posso godere.

Forse sono troppo arrendevole, magari non ho un carattere abbastanza aggressivo. Ci sono tanti altri tecnicamente e artisticamente preparati che come me provano ogni giorno a far parte di questo mondo, ma fin quando ci sarà qualcuno che avrà fiducia in me e nelle mie doti sarà solo un piacere e soprattutto un onore prendere un treno e poter partecipare ancora a un turno di doppiaggio.»

In chiusura le chiedo se ha già dei nuovi progetti per il prossimo futuro, e quali cambiamenti le piacerebbe poter introdurre in questo settore, se ne avesse la facoltà.

«In questo lavoro si vive spesso alla giornata e nel mio caso in particolare, non avendo io una mia società ed essendo solo un piccolo ingranaggio della produzione, è difficile avere una progettualità. Diciamo che spero arrivino nuove occasioni in cui mettermi alla prova e divertirmi.

Per il resto, nel mio piccolo posso dire di avere una speranza, che forse vale per la società in generale, ma per il doppiaggio in particolare: che il mondo rallenti un po’. Che torniamo a goderci certe cose dimenticate, perché il rischio è quello di non riuscire a sentire più, di rimanere sempre in superficie senza andare più a fondo, al cuore delle cose, di non riuscire a emozionarci e a creare qualcosa che abbia il sapore dell’arte.

Certo, è utopistico sperare che il doppiaggio possa tornare agli albori, a quando per incidere una sola scena ci si prendeva del tempo, perché veniva incisa sulla pellicola (che ovviamente costava molto), e allora doveva essere perfetta, non dovevano esserci errori per non dover buttare materiale prezioso; a quando le sfumature erano fondamentali, a quando un doppiatore aveva il tempo di vivere la scena sullo schermo così tante volte da poterla sentire davvero sua.

Oggi sarebbe impensabile, ci sono troppi prodotti da doppiare, ci sono dei tempi da rispettare per finire una lavorazione. Però forse basterebbe potersi prendere un attimo di respiro in più perché il doppiaggio non diventi solo una macchina industriale ma che torni ad assaporare quel pizzico di artigianalità che lo rendeva unico e che potrebbe renderlo autentico e più emozionante ancora oggi.»

Erna Corsi

Foto in alto: Ester Parrulli

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