La pittrice raggiunse grande fama nella Bologna del ‘600 dove fu a capo di una florida bottega che accolse delle allieve.
Avviata allo studio di pittura, disegno e incisione dal padre Giovanni Andrea, stretto collaboratore di Guido Reni, Elisabetta Sirani (Bologna, 1638-1665) a vent’anni prese le redini dello studio paterno, mantenendo la famiglia con i proventi della propria attività. Ammessa all’Accademia di San Luca, divenne famosa presso i contemporanei e fu elogiata da scrittori e intellettuali. Fu lei a istituire la prima scuola d’arte per ragazze.
Carlo Cesare Malvasia in Felsina pittrice (1678) la definisce «pittrice eroina» per l’abilità nel disegno, per l’inventiva e l’uso dei colori. Sirani stessa ha permesso di ricavare notizie sui propri lavori grazie a una lista dettagliata redatta fin dall’età di diciassette anni.
Tra le sue numerose opere, di tema sacro, profano e allegorico, una delle più celebri è Timoclea che getta il capitano di Alessandro Magno in un pozzo (1659, olio su tela, 228 X 174,5 cm, Museo e Real Bosco di Capodimonte). Dipinta per Andrea Cattalani in pendant con Giuditta trionfante ora alla Burghley House di Stamford, in origine doveva abbellire lo studio nel palazzo del banchiere bolognese.

Timoclea fa parte di quelle figure femminili simbolo di giustizia e rettitudine morale di gran moda al tempo, collegate all’ideale seicentesco della femme forte esaltata nella letteratura francese, unione di bellezza esteriore e risolutezza.
Dopo la conquista di Tebe, la matrona Timoclea subisce violenza da parte di uno dei comandanti di Alessandro Magno. L’uomo le ordina di consegnargli i gioielli di casa che crede nascosti in un pozzo. Lei coglie l’occasione per farlo avvicinare, spingerlo dentro e lapidarlo a morte. Colpito dalla sua determinazione, invece di punirla, Alessandro la libera.
Il formato di grandi dimensioni accresce l’impatto visivo dell’opera. Il forte contrasto tra la parte illuminata e quella in ombra e la resa del diverso atteggiamento delle figure ne mostra la differente rettitudine morale.
Sirani, infatti, sceglie di raffigurare l’eroina in piedi nel momento in cui getta nel pozzo lo stupratore. La rabbia della donna traspare solo nella dilatazione delle narici e nella resa del sopracciglio alzato. Goffo e poco dignitoso è, al contrario, l’atteggiamento del soldato. Infatti è raffigurato con un’espressione sconvolta mentre cerca senza successo di aggrapparsi al bordo del pozzo che reca la firma dell’artista.
Sirani spesso rivendicò con orgoglio la maternità delle opere, inserendo il proprio nome in alcuni dettagli ornamentali o architettonici.
Il soggetto deriva da un episodio narrato nella biografia di Alessandro Magno in Vite Parallele di Plutarco (I secolo d.C.) pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1555.
Sirani dovette conoscere i temi classici grazie alle colte frequentazioni e alla ricca biblioteca del padre, che superò in fama, diventando una delle artiste più influenti della seconda metà del ‘600.
Esposto al pubblico prima della consegna, questo lavoro fu molto ammirato, diventando oggetto di componimenti poetici, e oggi è uno dei pezzi che arricchiscono la collezione del Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli.
Silvia Roncucci
Foto in alto: Elisabetta Sirani, autoritratto da Wikimedia Commons
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