Pillole di femminile – Storie piccole che raccontano un mondo grande #166

Silvia Roncucci - Pillole di femminile
Una donna tenta di riprendere in mano la propria vita dopo anni di dedizione familiare. Ma il destino – e non solo – sembra esserle avverso.

Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.

Teloavevodettocheetc di Silvia Roncucci è la pillola di oggi. Tornare alla normalità dopo la nascita dei figli non è sempre semplice. Soprattutto quando il destino e altre forze oscure sembrano impegnarsi a metterci i bastoni tra le ruote.

TELOAVEVODETTOCHEETC di Silvia Roncucci

È come riprendere a pedalare su una bici arrugginita: dapprima arranchiamo, poi la catena inizia a scorrere con meno fatica finché non riusciamo a mantenere un equilibrio decoroso. Con i tacchi è lo stesso, solo un po’ più scomodo per gli alluci.
L’importante, continuo a ripetermi, è essere prontissima – tailleur stirato, capelli racchiusi in una coda e décolleté ai piedi – prima che loro si sveglino.

Mio marito attraversa la cucina come il flash di un autovelox, afferra una fetta biscottata, alza il pugno con un gesto che ricorda più il nostro passato nei centri sociali che un incoraggiamento a superare il colloquio. Scompare dietro la porta di casa.
Rimango da sola. Con le lancette che ticchettano. Con le bestiole ancora sprofondate nel sonno. Le stesse che ho accudito per cinque anni dimenticando persino il mio nome, annullandomi dietro quella che mia suocera chiama “la parola più bella”.
«Mamma!» sento gridare – appunto – dalla camera dei nani. Unisco i palmi in gesto di ringraziamento verso la porta che, sbattendo, li ha svegliati, risparmiandomi la prima fatica della giornata. Cosa che interpreto come segno che oggi tutto andrà bene.

Indosso il grembiule per evitare di macchiarmi quando distribuisco latte e biscotti, spalanco le tende nella camera dei demoni, con manovre da trasformista sostituisco i loro pigiami con dei vestiti e li spingo in cucina. Appena annuncio che per oggi non c’è bisogno di spazzolarsi i denti, fanno la “ola”.

Sono pronti: grembiulini allacciati, cartelle in spalla, pettinatura approssimativa, portiera dell’auto aperta, Piercarlo piagnucola che deve fare pipì. Dieci minuti dopo aver risposto di no a me che gli domandavo per la terza volta se ne aveva bisogno.
Lo accompagno in bagno mentre grido a Gianandrea di non toccare niente in macchina, per carità.
Finalmente ci siamo, tutti in sella. Mi siedo al volante e… sento qualcosa sotto il sedere. I satanassi ridono. Mi tocco il fondoschiena e sulle dita vedo una macchia scura. La annuso: cioccolato. L’orologio segna un orario allarmante quindi dobbiamo andare. Fortuna che ho scelto la gonna nera.

Lancio Gianandrea alle maestre che urlano qualcosa a cui rispondo con un “d’accordo” fiducioso mentre già sto facendo manovra per dirigermi alla scuola di Piercarlo.
Appena lo consegno alla custode, l’incauta creaturina le starnutisce in faccia.
Panico. Brivido lungo la schiena come nei peggiori film.
«Mica ha la febbre?» chiede lei.
L’ampio no che faccio con la testa non basta a farla desistere da infilargli un termometro e scoprire che segna 38.
Il fardello mi viene riconsegnato e a quel punto, scene della misera vita che farò se non arrivo in tempo al colloquio, mi scorrono davanti agli occhi – come nel film di cui sopra. Tanto da spingermi a ingoiare il boccone più amaro, ma che dico amaro, indigeribile, che dico indigeribile, molto peggio: mia suocera.
Mi guarda con la faccia teloavevodettocheeratroppoprestopertornarealavorare mentre saluto lei e il piccolo pestilente e premo sull’acceleratore con la forza della disperazione.

Parcheggio selvaggio, scale di corsa, ricerca ufficio, porta scorrevole che quasi mi schiaccia, altro ufficio, altre scale di corsa, altra porta.
Con il respiro azzerato riunisco le energie per bussare.
Mi accolgono facce indispettite e indici puntati sull’orologio. Troppe facce, troppi indici. Pensavo che il colloquio fosse con il capo supremo, invece mi trovo davanti il consiglio d’amministrazione al completo. Sono talmente tanti che ho l’impressione abbiano invitato amici e parenti per l’occasione.

Mi inchino in una posizione che neanche il più cerimonioso tra i servitori di un gran visir saprebbe assumere, mentre la mia bocca accampa delle scuse strappalacrime per il presidente della società. L’unico dal volto tranquillo, noto, appena torno in posizione eretta. Sorride. Ha una voce calda. Mi serra la mano in una stretta confortante.
Almeno finché non la ritrae con un’espressione disgustata. Sul palmo c’è della roba nera. La guardo, lui mi guarda. Inutile affrettarsi a spiegare che si tratta di cioccolato.

Silvia Roncucci

Foto in alto: elaborazione grafica di Erna Corsi

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