Pillole di femminile – Storie piccole che raccontano un mondo grande #165

Pillole di femminile
Tra le tombe, la fantasia erotica di un uomo si scontra con la spiritualità e l’intenzione di Sachiko. Quando il desiderio incontra l’amore.

Pillole di femminile, la rubrica per riflettere su alcuni piccoli grandi temi legati alla vita di tutti i giorni.

Esperieza di Sachiko di Raffaele Palumbo è la pillola di oggi. La donna, con la sua spiritualità e la sua dichiarazione inattesa, ribalta la dinamica di oggettivazione sessuale del protagonista.

ESPERIENZA DI SACHIKO  di Raffaele Palumbo

«Qui da voi pensate che noi non abbiamo i cimiteri.»

Io spalanco gli occhi. Mai saputa questa cosa.

«Tutti voi, europei e italiani, dicono sempre questo, che noi non abbiamo i cimiteri. Sì, invece. Ci sono. Sono piccoli, nascosti dietro templi buddisti e non si vedono. Ma ce ne sono anche molto grandi, a Tokyo per esempio uno più grande di questo.» Però Sachiko non parla davvero così: quasi sempre inverte la R con la L e viceversa. «Morto glandi.»

Mia madre è sepolta dalla parte opposta all’ingresso del cimitero della Misericordia, dalle parti del mausoleo di Pietro Mascagni. Bisogna attraversare diverse grandi sale dalle pareti completamente rivestite di lapidi, e poi spazi all’aperto con tombe a terra più o meno elaborate, alcune con raffinate sculture con intarsi in marmo policromo, altre con una semplice croce. Ma non ricordo bene il percorso, è solo la seconda volta che vengo a trovarla, e sto seguendo le istruzioni su un appunto che mi ero segnato la prima volta. Un anno fa esatto, quando pensavo che sarei venuto a trovarla più spesso, a portarle fiori freschi: «Mai fiori secchi sulla mia tomba», aveva chiesto nell’ultima lettera.

Invece no: una prima volta per i Morti, e poi adesso, che è un anno preciso. Mi sento a disagio in questi posti: colpevole di non sentire il dolore che provano gli altri in cui potrei imbattermi. Per questo oggi ho scelto questo orario, le 13, ora di pranzo: per non incrociare la sofferenza altrui, per non essere costretto a misurare ogni volta lo scarto tra me e l’anziana vedova che porta un mazzo profumato di colori al marito. Infatti non vediamo nessuno.

Per entrare nella prima grande sala si attraversa una porta. Sachiko ha con sé una grande borsa in pelle, e mi faccio di lato per farla passare per prima.

«Voi italiani siete gentili. Fate sempre anticipare le donne”. Sorride, lo sguardo sfuggente.

Adesso dovrei chiederle come fanno invece gli uomini giapponesi. Ma non ne ho voglia, l’argomento non mi interessa proprio. Così le sorrido, alzo le spalle. Sachiko mi fa tenerezza, di colpo sento come un’onda di compassione che mi sale dallo stomaco: così apprensiva dell’Occidente, e al tempo stesso così educata al rispetto di tutto quello che non è il suo mondo. È come se studiasse ogni sfumatura di quello che la circonda, cercando di apprenderne il significato esplicito e soprattutto quello nascosto, e di farli entrambi suoi; per rimanere poi ogni volta spiazzata di fronte alla molteplicità italiana, alle duplicità di interpretazione, soprattutto dinanzi alle figure retoriche che l’esperienza umana propone di continuo, alle antifrasi del linguaggio in particolare. Ed è così giovane: ha una decina di anni meno di me, un’età in cui la morte non esiste ancora come preoccupazione o come esperienza, non appartiene al mondo del sé – al massimo al mondo alieno dei nonni, ai malati, agli incidenti stradali. E provo un qualche imbarazzo per averla forzata in questa visita nella terra dei morti.

Mi aveva telefonato ieri, una telefonata confusa, il suo cellulare non prendeva bene dal treno: era tornata in Italia dopo tutti questi anni, una breve vacanza a Venezia, Firenze, Roma e Napoli, e ci teneva a rivedere la sua stanza, la camera in cui la avevo ospitata durante il suo mese di corso di Lingua italiana. Nel frattempo avevo cambiato casa, le ho detto, ma la avrei rivista volentieri. Insieme a pranzo? Le avevo anche raccontato della mia intenzione di passare dal cimitero, le avevo accennato di mia madre, le avevo detto della scadenza di un anno e che mi sarebbe dispiaciuto modificare il programma. Dopo aver valutato varie alternative, ci eravamo dati appuntamento alle 12:45 davanti al cancello.

Ovviamente l’ho riconosciuta subito. Nessun grande cambiamento. I capelli più corti – anzi, decisamente più corti – la facevano più giovane, riportandola indietro di qualche anno, ai tempi in cui l’avevo conosciuta. Ai suoi piedi una grande borsa. Sachiko non è una bellezza esotica, non certo una studentessa giapponese spuntata da qualche sito porno. Però ha ancora quel grande seno, largo e profondo, che mi toglieva il sonno quando dormivamo in camere attigue nella mia vecchia casa, separati solo da 10 centimetri di muro. Dopo la buonanotte, attaccavo l’orecchio alla parete cercando di interpretare i suoni che venivano dall’altra parte, dalla camera di lei, immaginando quando si sarebbe tolta il reggiseno per indossare il pigiama e andare a letto, presagendo il fruscio gommoso e morbido che avrebbero prodotto le sue tette (che immaginavo così: gommose e morbide) mentre sgusciavano dalle coppe.

Certe volte mi aiutavo con un bicchiere tra padiglione auricolare e parete, utilizzato come un primordiale e inefficace amplificatore. Sognavo di sprofondare lì, in mezzo a quella carne. Quasi sempre mi masturbavo. Non potevo permettermi niente di più: con gli affitti che mi pagavano gli studenti della scuola di Italiano io mi ci pagavo le vacanze estive, e non potevo certo rischiare qualcosa che andasse oltre il buongiorno la mattina, poi la colazione con caffellatte e biscotti, e la buonanotte prima di andare a letto. Una ragazza da poco maggiorenne, oltretutto. E quindi queste – i saluti e il caffè, oltre a una pizzata di fine corso con gli altri studenti, gli host, i docenti – erano state le nostre sole interazioni durante quel mio mese di seghe al pensiero della musica sublime delle sue tette.

La sepoltura di mia madre è all’interno di una piccola cappella sotterranea, insieme a poche altre tombe di persone sconosciute. Ci vogliono le chiavi per aprire il minuscolo cancello in ferro, e una stretta scala a chiocciola conduce alla stanza interrata. «Passo prima io, ti faccio strada”: quasi a scusarmi di una apparente mancanza di educazione, in questo caso ampiamente giustificata.

Ci circonda un’aria bloccata, come se da mesi nessuno si fosse curato di spostarla, di rinnovarla, come se si fosse stratificata e avesse organizzato le particelle più leggere in alto e quelle più pesanti verso gli strati bassi, fino al suolo, dove la polvere del tempo si mescola con quella della terra; un ambiente freddo e umido, che sa di oblio e di immobilità, che restituisce un che di malattia e di fine del tempo.

Con la torcia del cellulare cerco l’interruttore. Non voglio mostrare la mia inesperienza del luogo, e vado dritto al punto in cui dovrei trovarlo, e di cui ho un ricordo vago. Eccolo qua, per fortuna c’è. Ma la luce sembra non funzionare. Provo e riprovo, ma niente. La lampadina fulminata, un filo staccato, chissà.

«Siamo al buio.»

«Va bene.»

Uso la torcia per cercare la lapide di mia madre. Faccio avvicinare Sachiko, le mostro la fotografia riportata sull’ovale in pietra lucida, le date, il nome, il cognome.

«È qui la tua antenata?»

Mi viene da sorridere. «Direi mia madre, non direi antenata. Mia madre, che è morta un anno fa. Sì, è qui.»

«No, i morti no, sono pericolosi”, protesta. «I morti devono diventare antenati, non possono più fare il male. Sono di nuovo in famiglia, vivono con noi, mangiano e dormono con noi.» Posa la grande borsa in un angolo della cappella. Poi si riavvicina, si mette in ginocchio davanti alla lapide, abbassa lo sguardo, unisce le mani come in preghiera. Non so se sia una forma tipicamente giapponese di orazione tributata ai morti, o se stia scimmiottando qualcosa che ha visto in una chiesa italiana durante la messa. Questo gesto riesce però a, come dire?, trapassarmi il cuore: io non sono mai riuscito a pregare per mia madre o a mettermi in ginocchio davanti ai suoi resti, e ho dovuto aspettare che una persona venuta dall’altra parte del mondo lo facesse per me. Sì, liberandomi dal dovere di essere io a celebrare questo piccolo rito intimo, ma al tempo stesso accusandomi per non averlo mai fatto, alzando un dito contro di me. Di nuovo mi sale in gola un’altra onda di tenerezza per questa giovane donna, che per una perfetta sconosciuta fa quello che io ho sempre evitato. Una tenerezza che è sia personale che culturale, verso Sachiko e più in generale verso la spiritualità orientale.

Mi avvicino a lei, ancora inginocchiata, e le poso una mano sulla testa per ringraziarla, accarezzandole i capelli con estrema e consapevole lentezza, studiata. Spengo la luce del cellulare e chiudo gli occhi, ricercando immagini di mamma all’interno del mio database mnemonico: il suo ultimo sorriso, gli attimi estremi della sua vita, le ultime parole quando la certezza della fine le si era finalmente palesata davanti; o invece lei da giovane madre, quando mi accompagnava a piedi fino alla scuola elementare, quando a casa mi aiutava a fare i componimenti o i disegni o i pensierini, oppure quando cucinava il minestrone di verdure con il riso per farmi contento. Ma mia madre se ne resta nascosta nei meandri dei miei ricordi e non riesce a uscire, a spuntare fuori.

Più forte è invece la capacità che ha il contatto fisico di suscitare in me immagini e tensioni. Così, attraverso la mia mano sulla testa di Sachi e poi attraverso il mio braccio, passa una forte corrente, rinforzata dalla sua posizione e dall’altezza a cui si trova. Mi viene duro. Penso che vorrei slacciarmi i pantaloni e calarmi giù le mutande, e forzare la testa che tengo in mano, torcendola dalla mia parte, e infilarglielo in bocca, fin dentro la gola. Al di là dell’irrigidimento dei miei corpi cavernosi, mi guardo bene dal cedere a questi pensieri – oltretutto al cospetto del corpo di mia madre, non sia mai. Ma mi viene da pensare che questi pensieri, questa eccitazione in un luogo così avulso da contenuti vitali, corrisponde a quello che fanno i giapponesi quando chiamano “antenati” i propri morti, quasi a negarne la fine: questa corrente di eternità rappresenta una forma di difesa dal regno dei morti, di fuga, e al tempo stesso di autoaffermazione vitalistica.

Però, pur nella perfetta immobilità della sommità della testa di Sachiko, mi viene da immaginare qualche piccola fibrillazione, qualche microscopico movimento che mi inviterebbe a compiere il gesto, a ruotarle la testa verso i miei genitali.

«Torniamo su?» Riaccendo la torcia del cellulare. Sachiko si alza, mi fa sì con la testa, rivolge un cenno del capo a mia madre. Le dico di avviarsi, di salire, le dico che voglio rimanere un minuto solo con mia madre. Non è vero: è che non voglio mostrarmi così disinteressato, senza un segno di croce, un bacio e una carezza all’immagine, senza una lacrima a celebrare il passaggio di un anno. Con lei fuori, me ne resto fermo per un paio di minuti in attesa che la mia erezione si sgonfi, mentre Sachiko può immaginare qualunque mio atto di rispetto e di dolore nei confronti di mia madre.

Fuori, di nuovo al sole caldo e all’aria aperta e ventilata, trovo Sachiko che ha steso una stuoia per terra, ha posizionato due cuscini agli estremi della stuoia, e due contenitori di un materiale che pare bambù.

«E questo? Che cos’è?»

«Avevi detto mangiare insieme. Ho portato ramen.»

In certi momenti ho come l’impressione che io e Sachiko viviamo in due universi separati, che ogni tanto si sfiorano, ogni tanto riescono a mettersi in contatto tra loro; ma poi ognuno va avanti autonomamente con le proprie leggi, con le basi di logica e di fisica su cui è fondato. Mi guardo intorno, e per fortuna non vedo nessuno – «Non vedo anima viva», mi verrebbe da pensare. Non so se un picnic in mezzo alle tombe possa considerarsi atto sacrilego. Ma so per certo che non lo è se sei in compagnia di antenati, e allora mi accomodo sul cuscino, prendo la lunga bustina con le bacchette che sta vicino al contenitore, la apro, le separo.

Il tac che accompagna la divisione delle bacchette è come un avviso sonoro scattato per me: mi avverte che ho oltrepassato un confine, un limite; che ho accettato regole nuove, un intero mondo di significati e di convenzioni che non sono miei. «Cosa c’è qui dentro?», le dico sorridendole, come se interessarsi a quello che lei ha fatto per me sia una forma di ringraziamento.

«Brodo di miso, sakè, aglio e zenzero, carne di maiale, salsa di soia, cavolo, funghi. E i noodles, la pasta di riso.»

Apro il contenitore – un ingegnoso meccanismo di incastri tra alette di bambù che mantiene al caldo la zuppa e non le consente di uscire. Avvicino il naso, inspiro. «Il profumo è fantastico. L’hai fatto tu?»

«Grazie. Sì. Appena arrivata dalla stazione, a casa di Sandra.» Sandra, un’amica dei tempi del corso. «Dormo da lei.»

Non sono per niente esperto con le bacchette. Non le so usare. Dal cinese chiedo sempre una forchetta o un cucchiaio. Per la pasta riesco ad arrangiarmi in qualche modo, tengo ferme le bacchette e le giro avvolgendo intorno gli spaghetti, come si userebbe una forchetta. Non si fa così, lo so, ma più o meno funziona. Il brodo lo finirò bevendolo direttamente dal contenitore. Ma sono i pezzi di carne e di verdura che mi bloccano.

Lei nota il mio impaccio. «Posso aiutare te?»

«Sì, grazie, mi faresti proprio un favore.»

Si alza, si mette dietro di me, e con la sua mano destra prende la mia, e la guida nell’afferrare il maiale o il cavolo. Ma soprattutto preme appena le sue tette sulla mia schiena; e anche se una schiena non dovrebbe contenere recettori erogeni, ecco, mi viene subito duro. Faccio un sospiro, e penso che con quel respiro le sto comunicando qualcosa, il mio piacere, il mio desiderio, il mio imbarazzo. Non credo che lei si accorga del mio sospiro, e certamente non si accorge dei suoi aggregati, che invece immaginavo così evidenti.

Finito il pranzo, Sachiko sparecchia, pulisce e riavvolge la stuoia, rimette tutto dentro il borsone.

«Grazie, un pranzo squisito. Inatteso e squisito, davvero.» Mi avvicino e le do un piccolo bacio sulla guancia. Lei sorride e fa un leggero inchino con la testa.

Fingo di cercare qualcosa nelle mie tasche. «Scusami, devo proprio tornare un attimo giù. Credo di aver lasciato da qualche parte il foglietto con gli appunti per uscire. Vieni anche tu? Vuoi? Mi accompagni?»

«Vengo. Accompagno.»

Adesso siamo di nuovo al buio, sottoterra, chiusi a chiave dentro a una cappella mortuaria. Nessuno ci può vedere, nessuno ci può sentire. Un mondo a parte, cui hanno accesso solo i nostri e gli altrui antenati, che con benevolenza ci accolgono qualche volta all’anno, senza giudicare, senza retaggi di preconcetti e di umane cattiverie, con soli sguardi sorridenti di approvazione. Dopo aver finto per un po’ di cercare per terra il pezzo di carta, che invece tengo al sicuro nella tasca sinistra dei miei jeans, mi avvicino a lei e, con la scusa del buio, la sfioro e la tocco, come se fosse per caso. Studio la sua reazione: se c’è fuga, se c’è allarme. No, niente. Allora mi avvicino in modo palese, e in varie tappe la abbraccio, valutando le sue reazioni a ogni tappa. Esala un gemito a metà strada tra un riso e un pianto. Però risponde al mio abbraccio, inserendo in mezzo ai nostri corpi la doppia morbidezza del suo petto. È lì che vorrei andare subito, infilare la testa tra quelle tette, leccare e mordere, ma mi impongo di rispettare la procedura, prima i baci sulle labbra, poi la lingua, il collo, eccetera.

Tra un bacio e un altro, mentre le stringo culo e cosce, sento la sua voce. Dice qualcosa che non capisco.

«Cos’è che hai detto?»

«Io ho detto ti amo. Io ti amo.»

Ecco. Mi ama.

Raffaele Palumbo

Foto in alto: elaborazione grafica di Erna Corsi

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Raffaele Palumbo
Raffaele Palumbo

Raffaele Palumbo, livornese DOC, ha diretto la rassegna “Menu Cinema” (1995-2005) e ideato il festival “Mangiarsi le Parole” (2002-2012). Esperto di didattica, conduce da anni laboratori di scrittura creativa. Ha pubblicato quasi trenta racconti in antologie e l’opera Dobbiamo Parlare. Storie di coppie sconnesse (Erasmo, 2016). Presiede l’associazione QWERTY, curando un laboratorio permanente di scrittura che ha dato vita a dieci antologie collettive.

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