L’incidente che stroncò il Nobel, l’eredità di un capolavoro incompiuto e le donne che ne custodirono la memoria e il tormento.
Il 4 gennaio 1960 un’auto si schianta contro un albero nei pressi di Villeblevin, un villaggio nella regione della Borgogna-Franca Contea. Alla guida del mezzo c’è l’editore Michel Gallimard che morirà pochi giorni dopo. Sua moglie Janine e la figlia Anne sopravvivranno, mentre il passeggero accanto a lui spirerà poco dopo lo schianto.
Quel passeggero è Albert Camus e nell’auto lascia una valigetta con le prime centoquarantaquattro pagine di un romanzo autobiografico incompiuto, Il primo uomo.
Lo scrittore francese era stato insignito tre anni prima del premio Nobel per la letteratura. Onore e onere psicologico per chi come lui era tormentato nell’animo e nel corpo. Nato in Algeria nel 1913 da una famiglia di pieds-noirs, coloni francesi, Camus era affetto da tubercolosi, con momenti buoni e meno buoni che indubbiamente influenzarono anche la sua concezione della vita come bene di cui godere appieno, con la morte sempre dietro l’angolo. La malattia lo accompagnava da anni e forse Camus pensava che sarebbe stata proprio quella a condurlo a una lenta fine.

Nel libro Vedove di Camus Elena Rui racconta come affrontano il lutto quattro donne legate allo scrittore. E contemporaneamente narra il Camus uomo, la sua forza, le debolezze.
A tutte e quattro manca la terra sotto i piedi dopo la perdita, ognuna affronta il lutto in maniera differente. L’unica a cui è consentito mostrare, sul momento, la naturale reazione di dolore è la moglie Francine Faure. Creatura riservata ed elegante, vedova ufficiale, madre di due figli, che avranno rapporti differenti con il Camus padre. Ribelle il maschio Jean, affezionata la figlia Catherine che, infatti, successivamente ne gestirà i diritti.
Tra le petites amies che rimangono nell’ombra c’è una giovane aspirante artista, in apparenza un angelo biondo di origine danese ma molto solida nell’intimo, Mette Ivers.
C’è un’attrice che è stata diretta dallo scrittore all’epoca del suo impegno come regista teatrale, Catherine Sellers.
C’è «l’unica», l’amante prediletta, il fuoco ardente gemello al suo. L’attrice spagnola Maria Casarès che con costanza e forza d’animo riuscì a imporsi nella scena teatrale francese pur non essendo madrelingua.
E infine c’è lei: la Francia. Il grande paese scosso dalla morte di uno dei maggiori intellettuali dell’epoca e la piccola Francia di provincia segnata per sempre dal tragico incidente. Che, come spesso accade, attrarrà curiosi – autentici estimatori ma anche amanti del turismo macabro.
Con una ricerca infaticabile, Rui ha ricostruito il puzzle della vita di un’uomo, quattro donne, innumerevoli comprimari, quasi un’epoca intera, riempiendo le lacune con un’immaginazione che si avvicina alla logica per chi, come lei, a forza di addentrarsi nella storia di una figura, ha probabilmente anche la sensazione di conoscerla ormai come fosse la sua.
L’impressione che si ha dei rapporti tra le donne è verosimile. Sarebbe troppo facile per loro provare odio o invidia l’una per l’altra. Più spesso quello che emerge è invece un misto di tenerezza, comprensione, sensazioni indefinite simili a quelle che proverebbero donne che vivono nello stesso harem. Tutte amate dal medesimo uomo, sebbene in maniera differente.
La scrittura di Rui è stata una splendida scoperta. Lo stile elegante e cristallino dove ogni parola ha il giusto peso, non un grammo in eccesso né in difetto, accresce il valore del romanzo e rende la lettura lieve e profonda allo stesso tempo. Ennesima prova del fatto che la casa editrice L’Orma sta compiendo scelte raffinate che lasceranno il segno.
Silvia Roncucci
Foto in alto: Albert Camus a Stoccolma per il Nobel da Wikimedia Commons
© RIPRODUZIONE RISERVATA


Bella recensione di un libro che non conoscevo e che ora dovrò leggere. Grazie!