Un’analisi approfondita dell’affresco di Piero della Francesca, dalle origini ai significati più nascosti, tra arte, storia e devozione popolare.
Dal settimo numero de L’Altro Femminile, donne oltre il consueto, scarica il PDF della rivista o sfogliala online.
Ho sempre amato le cose che si aprono, anche in pittura. La Valtiberina “apre” a un orizzonte appena violetto verso l’Umbria e il torrente Cerfone che trascorre lento tra la chiesina di Santa Maria in Silvis e il fondovalle. Per questa cappella di campagna Piero della Francesca dipinse, forse in ricordo della madre Romana, che era di Monterchi, la Madonna del parto. L’opera non si trova, oggi, nel luogo originario, ma poco più in là, in un museo tutto suo.
È stata chiamata in tanti modi: Madonna sipario, arca, taberna. A me, come artista, è sempre piaciuto vederla come uno svelamento continuo di strati. Come le bambole russe, sempre più piccole, quanto le ventotto asole del suo prémaman azzurro.
Il primo strato segreto è quello che Piero ha coperto, dov’era una Madonna del latte, dipinta quasi cent’anni prima. Poi viene il vano della tenda in cui, nella parte sinistra, chiarissimi si riconoscono i frutti di melograno. L’interno si percepisce come morbidissimo e caldo a imitazione della pelliccia di scoiattolo, com’erano le fodere dei sovrani. Già si sbuccia, spontaneamente, la prima crosta, come fa la scorza di questo frutto per far esplodere i chicchi, in un parto vegetale.
Le gestanti aretine, che tuttora la “frequentano” prima di partorire, guardano la serratura verticale che si apre sulla protagonista, appena coperta dalla mano destra, che lascia intravedere una fessura più chiara, come di una sottoveste, a contrasto con il blu, più superficiale. Lungo il fianco se ne apre un’altra: tutto a dimostrare che è pregnant, come si legge, evocativamente, nei test di gravidanza. Intrisa, davvero. A me ricorda le statue votive di legno, dotate di sportelli per metterci la pisside o quei bambolotti con la cerniera sulla schiena per le pile.
In Nostalghia, Tarkovskij fa, improvvisamente, volar via dalle ante della statua degli uccelli, dopo una processione di candele in direzione proprio della Madonna del parto di Monterchi.
«Questa terra arata di Toscana […] bella quasi come sono i miei boschi, le mie colline […] lontani, russi, antichi.»
Nell’affresco anche gli angeli, costruiti col ribaltamento del cartone preparatorio, fanno pensare alla Russia o a certi giochi di bambole, paper doll da vestire e ritagliare. Proprio come i reggicortina di Pier Francesco Fiorentino dipinti per la chiesa dei Santi Tommaso e Prospero a Certaldo.
Altre due sono le tonache delle palpebre, a rivelare le iridi brune, rivolte verso il basso. Mi piace pensare che Piero l’abbia dipinta proprio per la piccola comunità, come un’apparizione di buona fortuna per la mamma e il nascituro. Fino a non molti anni fa le giovani donne lasciavano degli oggetti votivi ai suo piedi, piccole fotografie, fiorellini di seta, tanto che la piccola cappella era diventata un offertorio.
La Madonna del parto rimane impalpabile e schiva come nel girato struggente de La prima notte di quiete di Valerio Zurlini del 1972. E al contempo concreta e solida, come c’è da immaginarsela nel terremoto autunnale del 1997 o nelle sette giornate in cui Piero la dipinse, per strati.
Beatrice Pasquali
Foto in alto: Piero della Francesca, Madonna del parto, affresco, Monterchi
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